Quanti stili di Yoga esistono? Risposta breve: dal punto di vista commerciale molti, e rispondono più ai bisogni di fare tribù e di battere cassa che a una visione chiara e particolare; dal punto di vista della metodologia, già il campo si restringe a poche variabili, visto che nella maggior parte dei casi si tratta di approcci alla sola pratica posturale (del resto, in molti casi, per le dimensioni ulteriori dello yoga non esistono né le competenze né la tempra); da un punto di vista filosofico, gli enti si riducono ulteriormente, almeno se consideriamo gli stili oggi presenti ‘sul mercato’, che assomigliano sempre di più a delle confezioni sugli scaffali più che a ‘tradizioni’, ‘lignaggi’ o ‘visioni’ di una particolare scuola o maestro, anche perché queste ultime cose, a differenza delle prime, non si possono comprare con altrettanta facilità.
Ma il latte, quello vero, quello della mucca, dov’è?!
Tiziano Terzani
Forse la prospettiva del perfetto neofita è l’unica che abbia un senso. E allora, abbracciamola.
Chi si approccia allo yoga per la prima volta si trova spesso di fronte a una selva di ‘tanti yoga diversi‘ di cui è difficile farsi una ragione; per alcuni – non è detto che siano le persone più inclini ad esplorarla seriamente – è una festa di luci colorate di cui abbuffarsi, altri – non per forza più o meno seri – rimangono confusi come chi si accosta per la prima volta alla discografia di Frank Zappa, dando per scontato per eccesso di buona fede di trovarvi altrettanta sostanza.
Questo spaesamento coglie chiunque nonostante a livello popolare sia ormai maturata un’idea piuttosto chiara di cosa sia lo yoga di per sé, indipendentemente dalla capacità di definirla a parole (un po’ come accade per la meditazione), e anche chi ne pratica una clamorosa contraffazione ne è quasi sempre pacificamente consapevole.
Intuizione dell’unità del reale ed esperienza della molteplicità: sembra vi siano gli elementi per un’indagine veramente yogica. Non ce la caveremo quindi con un facile ‘lo yoga è uno’, ma dovremo evitare anche di moltiplicare inutilmente gli enti.
Riguardo a quest’ultimo aspetto – ovvero percepire un mondo di sole differenze – prendiamo ad esempio un insegnante che offre uno dei tanti stili presenti sul mercato, o meglio ancora un ventaglio di stili: alla persona interessata non mancheranno gli argomenti per sostenere l’unicità e la specificità di ognuno dei suddetti stili, e spesso la necessità di una classe separata dedicata a ognuno di essi, il che potrebbe anche, da un punto di vista funzionale, essere giustificato, ma introduce una frammentazione che è l’opposto dell’esperienza yogica, ovvero di quell’unità reintegrata, quell’appagamento che deriva nella percezione diretta che ciò che è qui è anche altrove, ma ciò che non è qui non è da nessuna parte. In altre parole, solo un’anima frammentata può pensare che l’ora di Power Yoga contenga qualcosa che nella lezione di Yoga del Sospiro – o in una passeggiata – manca.
Ma anche con questa frammentazione non si può fuggire il confronto, perché ognuno di noi è un frammento. Ciò non ci impedirà da un canto di esercitare il discernimento, dall’altro di riconoscere in un brandello imperfetto e incongruente, forse proprio perché uno qualunque, il tutto.
Yoga-qualcosa e yoga-con-qualcosa: dalla pratica al protocollo
Ora, scremiamo dal mazzo tutti gli yoga-con-qualcosa che si distinguono dalla presenza di un accessorio: yoga con la palla, con la fascia, con il gatto o con la capra; e tutti quelli mirati a particolari tipologie di persone o condizioni: yoga per persone in sovrappeso, yoga per corridori, yoga in gravidanza ecc. Sui primi non ci esprimeremo, i secondi non sono in discussione e a ben vedere non sono stili ma adattamenti: i destinatari sono chiari e inequivocabili (se ne ho bisogno, lo so), e l’esigenza di classi distinte è di ordine pratico.
Che cosa rimane? Se parliamo di yoga moderno come fenomeno di massa – da cui, volenti o nolenti, tutti dobbiamo passare – certo rimane nominalmente qualche lignaggio o tradizione, ovvero il corpus di insegnamenti trasmessi da un maestro o da una scuola ai propri allievi. Già però lo statuto di fenomeno di massa cozza con la dimensione artigianale e se vogliamo settaria che queste realtà implicherebbero.
Non è ovviamente un discorso generalizzabile – esistono delle eccezioni che confermano la regola – ma quando metti in commercio la tradizione a livello globalizzato, essa diventa proprietà intellettuale, la scuola diventa brand multinazionale, l’iniziazione diventa certificazione – ovvero ancora qualcosa che si compra – e l’insegnamento protocollo che tende a tradursi il più possibile in procedure standardizzate, laddove il cuore dell’insegnamento tradizionale sta nei principi, negli orientamenti che sta al singolo attualizzare: senza questo salto lasciato al singolo, non c’è possibilità di trasmissione.
Non a caso i protocolli, a differenza degli insegnamenti, invecchiano: il Daodejing, il Vijñānabhairava o anche gli Yoga Sutra sono molto più attuali – proprio perché da interpretare e attualizzare – di molti dei dettagliatissimi manuali di Yoga scritti negli ultimi cinquant’anni, le cui concezioni biomeccaniche e gli ammiccamenti ai fondamenti scientifici della pratica, per fare un esempio, risultano già superati alla data di pubblicazione.
Ma la maggior parte degli stili che oggi popolano i cartelloni dei centri yoga non appartengono alla fattispecie appena descritta. In molti casa si tratta ormai di marchi di più recente coniazione, a volte nati in reazione ai nomi più tradizionali o come loro evoluzioni, che parlano un linguaggio fitto di anglismi e a volte di scientismi più che di termini sanscriti.
E qui diventa molto difficile districarsi, se prendiamo sul serio la selva di definizioni e di slogan, di dichiarazioni di intenti, di certificazioni e di sotto-marche, di studi a sostegno dell’efficacia (quasi mai indipendenti: quanto potremmo prendere sul serio una ricerca che sancisce la bontà di una marca specifica di cerotti?).
Non neghiamo che ci sia della sostanza – ve ne è sicuramente – ma ci limitiamo ad osservare che le modalità di somministrazione e di presentazione, anche qui piuttosto standardizzate (lo yoga su misura per te, secondo l’umore del giorno, a cui nessuno aveva mai pensato prima, comodamente da casa, lo yoga che meriti o di cui avevi bisogno), rivelano molto più spesso l’impronta smaliziata del consulente di marketing piuttosto che del praticante appassionato.
Molti yoga, uno yoga? Il paradosso degli scaffali
Ci troviamo quindi di fronte a molti yoga sostanzialmente diversi? Calma.
In tutti i casi finora descritti, non ci troviamo quasi mai di fronte a sistemi diversi, ma a degli approcci, a dei metodi di insegnamento e di esecuzione di un repertorio di pratiche piuttosto consolidato: si tratta dell’immancabile pratica posturale (asana); per i più raffinati, anche di pratica energetica a base respiratoria (pranayama, kriya e mudra); e, per chi vuole proprio strafare, anche di approccio alla meditazione (dhyana).
Se volessimo proprio superare noi stessi, ma forse oltrepassiamo anche gli angusti limiti di questo articolo e delle questioni stilistiche, potremmo dire che in ognuno di questi tre elementi dovrebbe essere percepito il sapore dell’altro. E qui ci sarebbe già moltissimo lavoro da fare, tanto da farci dimenticare il nome dello Yoga che siamo entrati a praticare.
Tuttavia sappiamo che le esigenze di uno Yoga massificato vanno in tutt’altra direzione, e che se la Grande Distribuzione non vuole più soppiantare le piccole attività locali, è perché le conviene di più inglobarle. Questo spiega la tendenza, che si va sempre più affermando soprattutto nei centri yoga dei grandi agglomerati urbani, di offrire al pubblico un menù il più ricco possibile di stili, o meglio di molte marche diverse da riporre sugli scaffali.
Questa logica potrà avere certo un riscontro di tipo commerciale (ma per chi? per chi acconsente a posizionarsi su uno scaffale o per chi decide la forma e le regole di posizionamento in tutti gli scaffali in tutti i supermercati?).
Tuttavia, se è la sostanza che ci interessa, un contesto simile suggerisce a volte l’impressione di uno Yoga ‘a comparti stagni’, dove ogni stile – incompossibile all’altro – pone l’accento su un singolo aspetto particolare e sul polo di una dicotomia, invece di cercare un equilibrio complessivo e quella unità di fondo di cui parlavamo più sopra: la dolcezza o la forza, il rigore nell’allineamento o l’adattamento alle singole corporature, il gesto atletico o l’introspezione, fino al gettonatissimo dilemma – perché facilmente identificabile – tra yoga statico e yoga dinamico (dilemma che, sia detto per inciso, sarebbe ora di educare a superare).
Si aggiunga anche che molti dei tratti con cui diversi stili si identificano sono o dovrebbero essere patrimonio dello yoga in generale, il che fa dubitare – delle due l’una – delle competenze o della buona fede: ad esempio, il ruolo vigile e attivo del respiro nel movimento e nella stasi, il rilassamento nell’esecuzione, la pratica di alcune posizioni per un tempo prolungato, l’attitudine ‘mindful’ e gli effetti vago-tonici della pratica.
Nella girandola dei nomi finisce spesso anche lo Hatha Yoga, come uno stile tra i tanti, o un farmaco generico a cui grazie al cielo nessuno è ancora riuscito a mettere la firma; tuttavia riconoscere il debito di ogni brand contemporaneo nei confronti della propria matrice sarebbe questione di buona educazione e di onestà intellettuale, a meno che dello Yoga sappiamo solo ciò che ci hanno raccontato.
Ma l’avere praticato – e magari essere abilitati ad insegnare – tanti stili diversi significherà aver acquisito altrettante abilità o soltanto un patentino per utilizzare un nome? E come mettere a frutto, ovvero come potranno queste tante abilità aiutarmi a risalire quell’unità di fondo che è l’obiettivo dello yoga, se i comparti stessi non vengono messi in discussione, se cioè la sintesi creativa dell’esperienza personale è inibita da motivi strutturali?
Insomma, pur riconoscendo legittime e a volte pure necessarie le ragioni di metodo, di approccio e anche pecuniarie di ‘tanti yoga diversi’, per dirla con Terzani: ma lo yoga, quello vero, quello della mucca, dov’è?
La domanda sorge spontanea in un campo dove l’esibizione di titoli assomiglia sempre più pericolosamente a mettere le mani avanti. Quel che è certo è che chi si lascerà guidare da quell’idea intuitiva – ormai comune ai più – di cui parlavamo all’inizio, prima o poi troverà o verrà trovato da ciò che cerca. Chi invece presterà più attenzione del dovuto all’attribuito accanto alla parola Yoga, si prepari a un pellegrinaggio per mille parrocchie.
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Giuse Albani dice
Grazie x questo articolo..definisce in modo perfetto il mio pensiero… Siamo in un marasma. Yoga di tutto di più e ovunque.. dal bar al parco giochi. ognuno si senta libero di esprimersi. Ma la sensazione che mi rimane è che pochi si sentono stimolati ad una ricerca approfondita e personale è tutto pret a porter