“Ha mai provato a lavorare con un bambino tra i piedi?” continuò lei.
Will pensò al suo piccolo vicino di casa che si era offerto di aiutarlo a verniciare i mobili della sala da pranzo, e rise ricordando la propria esasperazione.
“Povero tesoro!” esclamò Susila. “È così bene intenzionato, così ansioso di aiutare.”
“Ma la vernice finisce sul tappeto, e ci sono impronte digitali su tutte le pareti…”
“Per cui, alla fine, deve sbarazzarsi di lui. ‘Fila via, bimbo. Va’ a giocare in giardino!'”
Ci fu un silenzio.
“Ebbene?” egli domandò alla fine.
“Non capisce?” Will scosse il capo.
“Che cosa succede quando è malato, quando è ferito? Chi ripara i danni? Chi guarisce le infezioni? È lei?”
“E chi allora?”
“Lei allora?” ella insistette. “Lei? La persona che sente il dolore e si preoccupa, e pensa al peccato e al denaro e all’avvenire! È capace, questo suo io, di fare quello che va fatto?”
“Oh, adesso capisco a che cosa mira.”
“Finalmente!” lo burlò Susila.
“Mi manda a giocare in giardino in modo che gli adulti possano fare in pace il loro lavoro. Ma chi sono gli adulti?”
“Questo non lo domandi a me” rispose “È una domanda da porre a un neuroteologo.”
“Che significa?” domandò Will.
“Significa esattamente quello che dice la parola. Qualcuno che pensa agli individui in termini, simultaneamente, della Chiara Luce del Vuoto e del sistema nervoso vegetativo. Gli adulti sono un misto di intelletto e di fisiologia.”
“E i bambini?”
“I bambini sono gli ometti che pensano di saperla più lunga degli adulti. “E quindi bisogna dir loro di correre fuori a giocare.”
Ci sarebbe poco da aggiungere a questo brano tratto da L’isola di Aldous Huxley1Aldous Huxley, L’isola, Mondadori. Un romanzo che racconta l’utopia di una società ideale (la comunità dell’isola immaginaria di Pala), ma anche il percorso di guarigione del protagonista Will Farnaby, che ha come causa scatenante il trauma e le ferite causate dal naufragio di cui è stato vittima, ma che andrà a investire le cause profonde di un malessere preesistente.
Accanto all’intervento medico, Will riceve un altro tipo di supporto da parte di Susila, la nuora del dottor MacPhail, che lo guiderà, appunto, a “mandare fuori i bambini a giocare”.
Ritengo che il brano riportato valga molto di più di moltissime (e spesso troppo superficiali) parole spese sulla guarigione e soprattutto sull’autoguarigione, due lati della stessa medaglia la cui complementarità andrebbe compresa non solo con l’intelletto, ma appunto mettendo in moto la fisiologia. O meglio, lasciando che quest’ultima faccia il suo corso assieme alla parte più profonda del primo.
Questo brano fornisce inoltre una risposta anche alla domanda: come possono discipline come lo Yoga o il Tai Chi Chuan, oppure le tecniche di meditazione, al di là degli aspetti puramente biomeccanici o in apparenza palliativi, favorire un processo di guarigione o prevenire disturbi (vedi le già citate ‘Tecniche di lunga vita’ nella tradizione cinese)?
Molto spesso ci sono troppi fraintendimenti su questo aspetto, perché, come ho osservato riguardo allo Yoga, queste pratiche non sono medicine. Quando vengono presentate come tali, l’equivoco nasce perché abbiamo un’idea di cosa sia una medicamento, sappiamo cosa voglia dire andare da un dottore e sottoporsi al suo intervento: significa far sì che una persona e/o una sostanza esterne intervengano sul nostro disturbo.
Ci manca tuttavia totalmente l’idea di cosa significhi far uscire i bambini a giocare. I bambini, o meglio “gli ometti che pensano di saperla più lunga degli adulti”. Una pratica che andrebbe coltivata ben prima di dover ricorrere a cure mediche e non solo per prevenirle, ma per migliorare la propria vita (e, se si vuole, anche qualcosa di più).
Non si tratta semplicemente di prendersi qualche distrazione, rilassarsi o fare un po’ di moto per svuotare la mente, sebbene tutto ciò sia sicuramente utile. Si tratta invece di educare quest’ultima – la mente, o meglio la parte più superficiale di essa – a cessare di interferire con i normali processi su cui non ha alcun controllo (il sistema nervoso vegetativo), ma sui quali ha di certo il potere di agitare notevolmente le acque e di intralciare il lavoro degli “adulti” (un esempio che potrà sembrare terra-terra ma che rende molto bene l’idea: assillarsi perché non si va di corpo è il metodo più sicuro per ritardare il momento in cui ciò avverrà naturalmente, a meno che non sussistano cause di forza maggiore).
Tutto questo ha anche ben poco a che vedere con il pensare positivo che ci ha lasciato in eredità la new age e qualche sostanza psicotropa assunta come fosse una caramella (con buona pace di Huxley stesso). Potrà infatti sembrare controintuitivo, ma anche la volontà di guarire (da una malattia, da un ossessione, da un lutto), così come di avere successo in qualsiasi attività umana, può essere un enorme intralcio.
Non perché si voglia negare l’efficacia della volontà, ma solo di un certo tipo di volontà e di desiderio, quelle appunto di chi pensa di saperla più lunga degli adulti e di intervenire secondo logica ma senza considerare l’interezza delle forze – evidenti e non evidenti – in campo. Perché troppo spesso si dimentica questo: ogni azione provoca, per legge fisica, una reazione.
Bisogna infatti contemplare la possibilità della sconfitta. Far rientrare nel campo di osservazione questa eventualità senza contrapporvisi, ma accettare che la risoluzione di un conflitto possa non essere quella desiderata, e accettarla. Qualsiasi altro modo di agire – o di non agire – significa per il soggetto diventare parte stessa del problema.
“Considerando uguali piacere e dolore, profitto e perdita, vittoria e disfatta, raccogli le tue energie per il combattimento; così non patirai alcun male”: sono parole della Bhagavadgita, e non trovo alcuna contraddizione nel fatto che si riferiscano a una battaglia.2Bhagavadgita, II, 38, a cura di Anne-Marie Esnoul, Adelphi. La Bhagavadgita è parte del poema epico indiano Mahabharata, ed è un testo fondamentale per la filosofia indiana e per lo Yoga. È un dialogo tra Krishna e Arjuna, che si trova di fronte al campo di battaglia dove sono schierati contro di lui i suoi stessi parenti. Non volendo più combattere, Krishna lo esorta a riprendere le armi, spiegandogli – tra le molte altre cose – che non è l’azione (karma) in sé a provocare sofferenza, ma l’attaccamento ai frutti dell’azione. Una sintesi della Bhagavadgita è presente nel Mahabharata di Peter Brook del 1989 (con Vittorio Mezzogiorno nella parte di Arjuna), sicuramente non esaustiva ma molto suggestiva (il video è in inglese): Più avanti, il testo prosegue:
Colui che sa vedere nell’agire il non-agire e nel non-agire l’azione, questi fra tutti gli uomini possiede la vigilanza della mente, quegli è unificato nello yoga, quegli assolve tutti i suoi compiti.3Bhagavadgita, IV, 18, a cura di Anne-Marie Esnoul, Adelphi
In fondo, anche il Taoismo aveva un termine per questo, che riassume un concetto cardine di questa tradizione: wei wu wei, letteralmente “agire senza agire”. Naturalmente, si tratta di un paradosso, e naturalmente questa conoscenza sembra l’esatto opposto della conoscenza, questa azione sembra l’esatto opposto dell’agire secondo il pensiero ordinario.
Ma se il paradosso non fosse tale, gli ometti che sanno pensare solo in direzione lineare la saprebbero davvero più lunga degli adulti. Ed è per questo che ogni tanto è necessario farli uscire a giocare.
PS: ringrazio i dottori Marco e Giorgio Invernizzi per aver letto questo articolo prima che venisse pubblicato.
Note
↑1 | Aldous Huxley, L’isola, Mondadori |
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↑2 | Bhagavadgita, II, 38, a cura di Anne-Marie Esnoul, Adelphi. La Bhagavadgita è parte del poema epico indiano Mahabharata, ed è un testo fondamentale per la filosofia indiana e per lo Yoga. È un dialogo tra Krishna e Arjuna, che si trova di fronte al campo di battaglia dove sono schierati contro di lui i suoi stessi parenti. Non volendo più combattere, Krishna lo esorta a riprendere le armi, spiegandogli – tra le molte altre cose – che non è l’azione (karma) in sé a provocare sofferenza, ma l’attaccamento ai frutti dell’azione. Una sintesi della Bhagavadgita è presente nel Mahabharata di Peter Brook del 1989 (con Vittorio Mezzogiorno nella parte di Arjuna), sicuramente non esaustiva ma molto suggestiva (il video è in inglese): |
↑3 | Bhagavadgita, IV, 18, a cura di Anne-Marie Esnoul, Adelphi |
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