È curioso come gli slogan dei corsi di formazione per insegnanti di yoga si stiano sintonizzando quasi tutti su questa falsariga: “Diventare insegnante di Yoga può cambiare la tua vita”, “Realizza il tuo sogno”, “Vivi della tua passione”. È curioso (ma è una curiosità retorica, conosciamo il movente) perché proprio in riferimento a un passaggio in cui io dovrei smettere di fare qualcosa solo per me e cominciare a farla anche per qualcun altro, non venga oggi in mente altro argomento efficace che quello egoriferito, col rischio di sollecitare o le persone non adatte o comunque le corde sbagliate.
In altri tempi si sarebbe scomodata una parola ad alto rischio di enfasi e fraintendimento come vocazione, ma probabilmente è oggi ritenuta troppo selettiva: d’altronde, il più delle volte si sta vendendo un prodotto a più ampio pubblico possibile, mica si sta pubblicizzando veramente una scuola che dovrà valutare o meno l’idoneità dei soggetti paganti.
Sta di fatto che i poveri allievi non vengono ormai quasi nemmeno nominati, se non come risorse che magicamente pioveranno dal cielo non appena vedranno il volantino dell’ennesimo corso di yoga, e che al massimo dovrai avere cura di non danneggiare.
Viene da domandarsi inoltre come mai la figura dell’insegnante di yoga sia diventata così sexy per un così vasto numero di persone, vista la progressione geometrica dell’offerta e l’affollamento dei corsi per ricevere l’ambito diploma. Consideriamo pure che una certa porzione di partecipanti lo faccia o per approfondire (oggi, almeno nello yoga, non esistono più i corsi per chi è semplicemente interessato a conoscere: devono darti l’investitura da insegnante); un’altra porzione si iscriverà per integrare lo yoga nelle proprie competenze professionali (operatori di varie dicipline, psicologi, educatori, insegnanti, per alcuni dei quali esistono percorsi specifici e mirati); rimane tuttavia una notevole fetta di pubblico – quella a cui si rivolgono le pubblicità summenzionate – che proietta sulla figura dell’insegnante la possibilità di un futuro più brillante del grigiore quotidiano.
Ora, mi sia concessa una piccola digressione personale. Qualche anno fa (mi rendo conto che in realtà dovrei sostituire qualche con parecchi) svolsi per un certo tempo un lavoro che, come l’insegnante di yoga, non ti garantisce sicurezze reddituali invidiabili, ma fa ugualmente sfuggire alle persone a cui lo si racconta un candido e incosciente che bello, come piacerebbe anche a me. Il mestiere era l’agricoltore. Bene, coloro che allora mi esprimevano la loro – innocente – invidia erano spesso persone con posizioni lavorative solide, che tuttavia avvertivano lo stress di pesanti responsabilità e lo stridore di ritmi innaturali, nonché la nostalgia di un contatto perduto con la terra, per quanto molto idealizzato.
E proprio a fronte di molta idealizzazione posso dire che il mestiere con la terra e quello di insegnante di yoga hanno due cose in comune. Ti obbligano da un lato ad affrontare la delusione delle aspettative, dall’altro a cogliere ciò che arriva invece.
A meno che tu non abbia un patrimonio da dilapidare in una bolla anestetica di soggiorni a Bali e di storie su Instagram di felicità simulata, fare l’insegnante di yoga ti pone di fronte alla prospettiva di essere ormai uno tra i tantissimi, ma anche di dover trovare un luogo dove esercitare e di mantenerlo – oltre a mantenere te, con questo o un altro mestiere – e soprattutto ti pone di fronte alla volatilità degli allievi, che giustamente hanno delle vite al di fuori dell’ora di yoga, e spesso all’incostanza di quelli su cui ti eri fatto le maggiori aspettative; alle classi vuote, che capiteranno anche dopo anni; ai malintesi, inevitabili lavorando a contatto con le persone, anche con le migliori intenzioni; e alla apparente mancanza di risultati, che ti visiterà ciclicamente proprio come ogni anno la terra, alle nostre latitudini, in apparenza muore.
E tutto questo genera sempre un’emozione, non raccontiamoci la favola del distacco, anche se osservare e vivere questa emozione non significa reagire di impulso: questo tuffo al cuore è proporzionale allo slancio con cui la meraviglia ti coglierà al momento della ripresa, se vivrai o resisterai abbastanza a lungo.
Ma al tempo stesso, dicevamo, oltre a digerire la sconfitta reale o apparente, provvisoria o definitiva, dovrai imparare a cogliere quell’invece che molto spesso non vedi perché accecato dalla delusione delle aspettative, come la persona che ritenevi totalmente unfit che invece, costringendoti a riformulare il tuo insegnamento, innesca un processo di reciproca crescita; come la base stabile di allievi che, se coltivata senza forzature e con correttezza, crescerà nel tempo senza gli scrosci delle folle urlanti ma con il silenzio e la costanza di una foresta. La vittoria, insomma, non consiste che in continue batoste. Le storie di successo mancano sempre del triste epilogo, tanto più amaro se il vittorioso non avrà imparato a fondare la sua stabilità nel sé e a riconoscerla sia attraverso il successo che la sconfitta.
Perché il punto è proprio questo. Se lo yoga non è semplicemente la patina con cui ricoprire il tuo bisogno di identificarti con qualsiasi cosa, se la parola yoga vuol dire qualcosa e, mi si passi il termine, ‘funziona’, che tu faccia il mestiere dei tuoi sogni o un lavoro di merda non cambia moltissimo, anche se non possiamo pretendere, così come c’è chi non digerisce questo o quel cibo, che tutti siano in grado digerire qualsiasi situazione lavorativa. Eppure, se praticare yoga, attraverso il tempo, dà dei cosiddetti risultati, li vediamo più nella capacità di metabolizzare le situazioni della vita che nel successo nel creare condizioni ideali, le quali, oltre a non verificarsi mai, non dipendono in gran parte da noi ma soprattutto imprigionano nel conosciuto.
Per questo, a mio parere personale, se davvero vuoi approfondire lo yoga, che tu voglia insegnarlo o meno, è importante che tu sia consapevole che su un certo piano realizzare i propri sogni o meno non ha importanza affatto; tutte queste proposte basate su obiettivi sono anzi la morte di qualsiasi aspirazione spirituale, se non si comprende la natura provvisoria e pretestuale di ogni obiettivo. Il pretesto per cosa? Per risvegliare il desiderio. Il desiderio che, come cantavano gli Einstürzende Neubauten, in barba al catechismo patanjaliano ma in linea col controcanto tantrico, è davvero l’unica energia, senza la quale né i libertini né gli austeri e castigati meditanti muoverebbero un dito verso l’obiettivo delle proprie aspirazioni.
Ma mi si permetta di concludere con un’altra citazione. “Il sussistere nella forma corporea costituisce l’osservanza religiosa” recitano gli Śivasūtra. Per chi ha realizzato che è il Sé, che il suo percepire, sfrondato dall’identificazione anagrafica, è Coscienza che conosce sé stessa, il sacro, lo straordinario è qualsiasi forma, qualsiasi mansione la sorte ci abbia riservato. Ma vale anche il contrario, come sempre: accorgersi che lo straordinario avviene in ogni momento è un modo, forse l’unico, per realizzarlo.
Porsi un obiettivo, come ad esempio iscriversi a un corso per diventare insegnante di yoga, non è il vero l’obiettivo: è l’additivo che serve a mettere in moto energie che altrimenti non sarebbero messe in gioco. Comprendere la sottile differenza prima di trarre conclusioni affrettate.
PS: questo articolo, forse ultimo di una riflessione in tre parti (le altre due qui e qui), arriva a pochi giorni dall’inizio del primo seminario del primo corso di formazione insegnanti che abbiamo mai organizzato, nonché a un paio di mesi dal compimento dei dieci anni dall’apertura di Zénon come centro fisico.
PPSS: “La vittoria non consiste che in continue batoste” è una frase dello scrittore ceco Ladislav Klíma, citata da Bohumil Hrabal in epigrafe a Lezioni di ballo per anziani e progrediti.
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