“Quando dici di sentire la mano, cosa dovrei sentire?”
Questa domanda, posta qualche tempo fa dopo una seduta di meditazione, è tutt’altro che banale e descrive un paradosso in cui tutti rischiamo di finire intrappolati. Perché oggi chiunque vuole riempire la nostra tazza ma ben pochi ci insegnano a svuotarla.
Molto spesso, infatti, quando si parla di aspetti corporei ed energetici nella pratica dello yoga o di altre pratiche psico-corporee, uno si immagina che vi sia una teoria, una formalizzazione, uno schema e dei principi da apprendere e poi applicare. Insomma qualcosa da sapere e concettualizzare per poi tradurre nella pratica.
Ma ciò deriva da un pregiudizio culturalmente piuttosto radicato, ovvero che vi sia prima una teoria e poi una pratica che ne è l’applicazione. Quindi ecco le mappe di meridiani, energetici o miofasciali, di nadi, gli elenchi di chakra con tutto il loro carico di attributi, ecco gli stadi, gli involucri, i soffi e le loro complicate interazioni che si accumulano nella mente del praticante strato su strato, sovrapponendosi peraltro ai paradigmi medici e biomeccanici (per molti approcci oggi gli aspetti energetici non osano discostarsi dalla chinesiologia) e agli standard performativi propri al mondo in cui viviamo, in un processo di accumulo senza sintesi e quindi fertile di ulteriori bias.
Insomma, sul sentire la mano non può che prevalere il pensare alla mano, o peggio ancora il groviglio di sovrastrutture che la occultano, rafforzando il malsano retropensiero che per sentire bisogna prima sapere e negano al sentire lo status di forma di conoscenza: è il pensiero, quindi, che taglia le proprie radici e si priva volontariamente della linfa vitale.
All’atto psicocorporeo, questa forma mentis ovviamente imprigiona, più che liberare, moltiplica, più che ri(con)durre all’unità del sentire, mortifica la lingua a mera informazione, soffocando la risonanza poetica che ne è l’essenza più intima e ne plasma le forme. Con la conseguenza che certi linguaggi non ci parlano più se non rispondono immediatamente alla domanda: A cosa serve? Ma l’aspetto più grottesco è che qualsiasi risposta non placherebbe la sete, provocherebbe un’altra domanda ancora: e così all’infinito.
Non è però un caso se, delle decine o centinaia di migliaia di canali energetici citati nei testi dello hatha yoga, tutto poi si riduce a poche, sintetiche indicazioni che servono più come orientamento nell’esperienza diretta che come libretto delle istruzioni.
Ma l’istruzione fondamentale, spesso omessa perché sottintesa, riguarda la consapevolezza o presenza corporea. Consapevolezza è saper ascoltare il corpo senza aspettative e senza sovrapporvi dei concetti. Di nuovo: sentire la mano, non: pensare alla mano. In altre parole, occorre soffermarsi sulla sensazione prima che diventi percezione, ovvero interpretazione soggettiva, riferita all’io e alle sue identificazioni, alle sue storie e ai suoi progetti. E il non sentire può essere altrettanto gravido del sentire.
Questo permette alla sensazione corporea di seguire il suo naturale sviluppo, che abitualmente è inibito proprio dall’attività egoriferita, e, da un lato, di ridimensionare drasticamente il predominio del pensiero discorsivo, che viene de-articolato e infine riassorbito dalla sua stessa matrice energetica; dall’altro, di ripristinare la comunicazione con la trama sottostante di cui tutto ciò che sentiamo e pensiamo è una temporanea increspatura.
Proprio anteporre l’ascolto al fare, la presenza corporea alle forme del dire è ciò che distingue qualsiasi linguaggio, arte e pratica tradizionale, non importa se tramandata ininterrottamente o di recente (re)invenzione, e ci permette di lasciarci toccare, pur senza necessariamente comprendere concettualmente, dalla sua musica.
Uno potrebbe dire: ma cosa ci guadagno, quando sul mercato ci sono sono centinaia di approcci già regolati e segmentati sul singolo obiettivo, tagliati su misura per chi si accontenta della libertà dal gonfiore addominale o della rimozione dei blocchi emotivi, del contrasto dei segni dell’età o del conseguimento delle mete lavorative.
Il fatto è che qualsiasi pratica che abbia l’ambizione di orientare la mente-corpo e che limiti la prospettiva unicamente all’obiettivo, perdendo però di vista ciò che si intravede attraverso l’obiettivo stesso, comporta degli effetti collaterali che raramente vengono messi in conto; allo stesso modo, la pratica delle posture yogiche come fine in sé porta necessariamente a infortunarsi, come possono tristemente confermare milioni di praticanti e insegnanti che per decenni hanno inseguito l’asana perfetto e hanno perso invece la salute che pensavano di conseguire.
È proprio la presenza corporea, sottintesa alle pratiche – tradizionali e non – a permettere a ciò che inizialmente si manifesta come dato sensoriale di espandersi e prendere in carico, ovvero ricontestualizzare, ciò che è soggetto alle complicate leggi fisiche e subconscie che a loro volta complicano estremamente la realizzazione dei propri fini.
E a volte, come chi partito alla ricerca di qualcosa, e trovando nella ricerca stessa molto di più del suo piccolo oggetto di desiderio, si finisce per dimenticare il motivo stesso che aveva fortuitamente messo in moto il viaggio.
PS: l’approccio pratico alla presenza corporea sarà il tema del primo seminario di Yogasana 10: Corpo Yogico, Neuroni specchio e Immaginazione Motoria.
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