la vera camera ha l’entrata occultata,
Alessandro Ceni
l’altra (la prima) resta vuota
per deludere coloro che la visitassero
In questo articolo non troverete, se non nelle note, come evitare lo ‘yoga butt’1 o come evitare di farvi del male ai polsi in chaturanga dandasana2. Certo, fatalità, distrazione e patologie pregresse sono dietro l’angolo, ma a leggere degli infortuni più frequenti che capitano ai praticanti di yoga oggi, si rimane stupefatti per la prevedibilità delle cause, che spesso possono ridursi alla co-occorrenza di due fattori: superamento dei limiti fisiologici e ripetizione nel tempo (ognuno decida in cuor suo se si tratti della naturale conseguenza o della parodia del dettato patanjaliano: distacco e pratica costante).
Se la soluzione sembrerebbe semplice e di buonsenso, a complicare il quadro c’è il fatto che molti insegnanti – spesso in buona fede – sono ancora convinti per imprinting che l’asana sia un valore in sé e che la versione più estrema di una posizione comporti più benefici. Il che giustifica la forzatura e il dolore in vista di un bene e di un equilibrio che probabilmente non arriverà mai, semplicemente perché il punto di equilibrio è ormai parecchio dietro le nostre spalle.
Ma al di là di un generico invito alla moderazione, l’infortunio può essere però a volte più sottile e insidioso, perché molto spesso è la conseguenza di un matrimonio infelice, quello tra la rappresentazione mentale del corpo (sia essa di tipo performativo, medico-anatomico, olistico o filosofico) ed esperienza reale del corpo e degli strati di coscienza di cui è ricettacolo, con l’aggravante che uno dei due coniugi è convinto di conoscere in ogni dettaglio le esigenze dell’altro.
Possiamo quindi con una piccola iperbole usare la parola infortunio per indicare inconvenienti di diversa portata e qualità, non necessariamente una lesione: anche il semplice e vago fastidio persistente dopo una pratica di yoga, in particolare se accompagnato dalla relativa e altrettanto vaga sensazione di ‘non essere a posto’. Questa sensazione, se affrontata con il principio di compensazione a cui siamo abituati, può innescare un circolo vizioso di autocorrezioni che non faranno altro che esacerbare il problema, proprio perché rispondono alla stessa logica che li ha generati. Ma se indaghiamo e ascoltiamo bene, può rivelarsi qualcosa di molto interessante.
Spesso infatti, questo disagio è sintomo che il tentativo volontario di allinearsi a una forma esteriore non trova una risposta se non passiva nel corpo, che la percepisce come estranea. In altre parole, se l’azione esterna non muove incontro a un molto meno definibile moto interno, procederà ottusamente e superficialmente verso il suo estremo.
Il che, se non porta a vere e proprie lesioni (e per molti praticanti di lunga data queste sono all’ordine del giorno, soprattutto negli stili più intransigenti), provoca comunque uno scollamento dalla realtà corporea, o meglio a un divario tra l’idea di corpo e corpo in sé, la cui esperienza, quando è reale, equivale ogni volta a un primo contatto, anche se col tempo si impara a gestire lo shock culturale.
Vista la predominanza e l’importanza attribuita, nello yoga contemporaneo, ai modelli teorici (soprattutto di stampo medico e terapeutico), non dobbiamo dare troppo per scontato di sapere realmente riconoscere una esperienza corporea. Anzi, forse più crediamo di saperlo, più la prevediamo e la preveniamo, più siamo fuori strada.
Come mi disse Gioia Lussana in un confronto proprio su questo argomento, quello che quasi sempre manca nello yoga oggi è il coraggio di esplorare “una sensorialità più inclusiva di ciò che non è immediatamente percepibile o definibile”. Il fatto è che “rimanere nell’incerto e farci il nido” è oggi ritenuto poco autorevole: ci vuole uno schema a giustificarlo.
Non che qualsiasi formalizzazione sia da rigettare, ma potrebbe essere un madornale errore di prospettiva (anche e soprattutto culturale) presumere che la prassi sia l’attuazione pedissequa di una teoria che la precede, esattamente come credere che l’assenza di un modello teorico ci porti dritto verso l’infortunio o a perderci per strada.
Per cui ben venga, nello yoga, la formazione all’anatomia e alla biomeccanica, ben vengano i tropici e i meridiani, ma c’è anche qualcosa di ben meno definibile eppure tutt’altro che impreciso (è del resto il presupposto taciuto ma indispensabile di ogni prassi psicocorporea e contemplativa), alla cui sensibilizzazione è bene dedicare altrettanto spazio, pena l’impossibilità di uscire dal conosciuto. Senza l’approssimata precisione di questa incertezza, il corpo non apre all’increato, ma si chiude nella sua finitudine di cosa sola e separata: per questo tiriamo e stiriamo anche i canali sottili, cambiando sacco ma non comprendendo lo schema di fondo che ci limita.
E a chi ragionevolmente domanderà che cosa occorra fare per coltivare questa sensibilità, la risposta potrebbe essere innanzitutto imparare a non stroncarla sul nascere, perché essa emerge naturalmente quando non viene soffocata.
Ma c’è anche dell’altro che può aiutare ad orientarci e preferiamo lasciarlo raccontare a un episodio della tradizione taoista, quello del macellaio del principe Wen-hui narrato nello Zhuang-zi, che con essenzialità e ironia descrive con rara efficacia il senso più intimo della pratica su e attraverso il corpo:
Il macellaio del principe Wen-hui così smembrava un bue: con le mani afferrava la bestia; con la spalla la spingeva e, tenendo i piedi ben fermi al suolo, la sosteneva con le ginocchia. Affondava il coltello con un ritmo così musicale che ricordava quello delle celebri melodie suonate durante la « danza del boschetto dei gelsi» e «l’appuntamento delle teste piumate ».
Zhuang-zi (Chuang-tzu)
«Ehi! » chiese il principe Wen-hui « come può la tua arte giungere a un tale grado di perfezione?.
Il macellaio posò il coltello e disse: «Amo il Tao e così miglioro nella mia arte. All’inizio della mia carriera non vedevo che il bue. Dopo tre anni di di pratica, non vedevo più il bue. Adesso è il mio spirito che opera, più che i miei occhi. I miei sensi non agiscono più, ma soltanto il mio spirito. Conosco la conformazione naturale del bue e attacco solo gli interstizi. Non scalfisco mai né le vene né le arterie, né i muscoli né i nervi, né a maggior ragione le grandi ossa! Un macellaio consuma un coltello all’anno perché taglia la carne. Un normale macellaio consuma un coltello al mese perché lo rovina sulle ossa. Lo stesso coltello mi è servito per diciannove anni. Ha smembrato diverse migliaia di buoi e la sua lama è ancora come fosse affilata da poco. In verità, le giunture delle ossa hanno degli interstizi e il taglio del coltello non ha spessore. Colui che sa introdurre il filo della lama in quegli interstizi usa agevolmente il proprio coltello perché si muove attraverso i vuoti. E per questo che io ho usato il mio coltello per diciannove anni e il suo taglio sembra sempre affilato di fresco. Ogni volta che devo dividere le giunture delle ossa, osservo le difficoltà da superare, mi concentro, fisso lo sguardo e lentamente procedo. Con grande dolcezza maneggio il coltello e le giunture si separano cadendo al suolo come terra che frana. Ritraggo il mio coltello e mi rialzo; volgo lo sguardo attorno e mi distraggo, compiaciuto; con cura pulisco allora il mio coltello e lo ripongo nel suo astuccio».
«Molto bene, » disse il principe Wen-hui « dopo aver udito le parole del macellaio ho capito l’arte di conservarmi ».
Ecco cosa caratterizza moltissimo yoga contemporaneo: il suo coltello rovina sulle ossa o sulla carne. E ancora crede che, non riuscendo a spremere dal corpo risultati prevedibili e pianificabili, occorra aumentare la dose: nemmeno li cerca, gli interstizi che su nessuna cartina possono trovarsi.
- Si tratta di una fastidiosa irritazione o infiammazione dei tendini dei muscoli posteriori delle cosce o ischiocruali, molto diffusa tra i praticanti che ripetono molto spesso piegamenti in avanti (pinze e ‘cani a testa in giù’) con le gambe completamente tese: si evita piegando anche solo leggermente le ginocchia, dacché gli ischiocruali limitano l’anteroversione del bacino. ↩︎
- Al di là delle frammentarie indicazioni di allineamento che si trovano ovunque su internet per qualsiasi posizione, basate sull’infausta idea che una postura sia la somma di particolari anatomici, una delle spiegazioni migliori su come approcciare questa faticosa posizione è quella di Leslie Kaminoff, che integra l’ascolto delle dinamiche motorie e di quelle respiratorie, nel video più sotto.
↩︎ - Non a caso la parola mudra indica contemporaneamente il sigillo e lo stampo del sigillo; e non a caso mudra è un gesto esteriore che esprime un atteggiamento esteriore, o addirittura, come in bhairavi e krama mudra nella tradizione del Kashmir, un gesto del tutto interiore che non ha espressione esteriore. ↩︎
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