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Come un incendio che lo guarisca di creare
Antonin Artaud, I Cenci
Nello yoga, e nell’atteggiamento verso la vita che ne deriva, hanno largo e meritato spazio termini quali rilassamento, abbandono e lasciare andare. Tuttavia, se questo lasciare andare non fosse preparato da una calibrata autodisciplina, non solo non avremmo nulla da abbandonare, ma non potremmo farlo con la necessaria intensità.
La dialettica tra questi due poli è delicata e dibattuta anche nella tradizione: il rischio è da un lato l’automortificazione improduttiva perché basata unicamente sul controllo del corpo e delle funzioni vitali, con il contrappasso di rimanerne schiavi (sia il Buddha sia diversi testi dello Haṭhayoga rifiutano esplicitamente questa via). Dall’altro rischiamo uno yoga dell’evitamento più che dell’abbandono, dove non si arriva mai a temperatura, non si varca mai la soglia, non si sale mai di ottava perché il fuoco viene spento prima di qualsiasi confronto con la difficoltà (e, verrebbe da dire, con la realtà stessa), confronto senza il quale non può avvenire alcun cambio di stato.
Per trovare il punto di equilibrio (la famosa via di mezzo predicata dal Buddha) non è possibile emettere una sentenza per tutte le stagioni e per tutti i soggetti: come nelle diete, a qualcuno bisognerà raccomandare almeno inizialmente il massimo rigore, mentre per qualcun altro sarà salutare concedersi qualche licenza. Allo stesso modo, chi vuole accostarsi alla pratica meditativa dovrà comprendere come l’immobilità formale non può andare a discapito del rilassamento – che ne è anzi una delle cause interne – ma è altrettanto vero che se risponderà a ogni impulso al movimento andrà incontro a una continua dispersione e quindi anche a un crescente stress.
E proprio a proposito di autodisciplina e di dispersione, non è possibile evitare di parlare di tapas, un termine che molti studenti di yoga avranno conosciuto attraverso gli Yoga Sutra (è una delle cinque osservanze elencate da Patanjali) ma che risale all’India vedica e attraversa tematicamente tutte le tradizioni del subcontinente.
Letteralmente “calore, fuoco, luce”, tapas indica in genere qualsiasi forma di austerità non solo nella sfera (che per noi è) religiosa, ma anche in base a ciò che l’ordinamento sociale prevedeva per ognuno. Secondo il Monier-Williams, tapas è per i Brāhmani l’apprendimento sacro, per i guerrieri è la protezione dei sudditi, per i contandini è fare l’elemosina ai Brāhmani, per i servi è adempiere al servizio, per i Veggenti è nutrirsi di erbe e radici. Tapas, insomma, indica tutto ciò che richiede una restrizione, un contenimento, ma, come la sua etimologia ci ricorda, indica anche il potere che deriva da questa rinuncia.
In effetti il tapas non è altro (prendo a prestito una definizione di Mauro Bergonzi) che “scaldarsi per autoincubazione, come la gallina che cova”. Il principio è molto semplice e comprensibile anche se non pratichiamo grandi austerità: quando evito di disperdere energia, questa si accumula ed è disponibile per i miei obiettivi, siano essi la concentrazione meditativa o il compimento di un’impresa. Nell’India tradizionale, infatti, l’ascesi non era riservata ai mistici, ma era praticata da chiunque dovesse intraprendere un’opera molto difficile.
Tapas, in italiano, è spesso tradotto come autodisciplina, soprattutto in relazione all’ottuplice yoga di Patanjali, anche se questo termine rischia di offuscare due caratteristiche tipiche di questo principio: da un lato l’autopurificazione che il tapas produce (leggerezza del corpo, nitidezza mentale e forse anche salute), dall’altro – elemento forse ancor più sottovalutato – lo sviluppo di un principio autoportante che, soprattutto nel caso delle vere e proprie austerità ascetiche, può essere fuori scala.
Il fuoco del tapas, infatti, pur essendo tecnicamente applicabile a qualsiasi scopo, finisce per bruciare qualsiasi obiettivo che non sia l’assoluto: non a caso i miti indiani sono affollati di umani e demoni che, a causa dei poteri accumulati attraverso le austerità, giungono a mettere a repentaglio l’universo. La soluzione che si prospetta (l’intervento degli déi a ripristinare l’ordine) è però ambigua: potrebbe essere letta come una salutare risposta immunitaria del dharma contro le incursioni del caos, ma anche come la difesa di uno status quo che strutturalmente è volto a impedire la liberazione.
Lasciamo che il tarlo di questo dubbio faccia il suo lavoro e torniamo alle piccole cose, che come sempre contengono le stesse dinamiche e le stesse domande che si muovono attraverso l’intero universo. Se ad esempio comincio a leggere un libro, mi sarà richiesto un certo sforzo iniziale. Oltre a fattori di disturbo variabili dovuti all’ambiente e al grado di eccitazione in cui mi trovo, allo stile e all’argomento più o meno familiare del libro, devo considerare che il mio tapas non è giunto ancora ‘a temperatura’ e quindi non mi può aiutare. Facilmente, continuerò a interrompere, la lettura sarà difficoltosa, accidentata, continuerò a perdermi.
Se di fronte a queste difficoltà decido che il gioco non vale la candela e abbandono l’impresa, in un certo senso sarà come se non avessi mai nemmeno iniziato: rimarrò con le idee piuttosto confuse sul contenuto del libro e a una eventuale ripresa della lettura lo sforzo richiesto sarà probabilmente identico a quello iniziale.
Se però resisto per un tempo sufficiente a stabilizzare la concentrazione (e ciò può voler dire arrivare sul punto di ammettere di non non capirci niente, ovvero sulla soglia della disperazione), potrebbe verificarsi un evento simile a quando il corridore ‘rompe il fiato’: la lettura comincerà a scorrere più veloce e soprattutto con maggior continuità. I concetti, i personaggi, i termini della questione diventeranno familiari ed emergeranno richiami e collegamenti anche non espressi esplicitamente.
Il flusso della concentrazione non sarà più solo univoco (il mio sforzo verso la lettura) e non si baserà solo sulle mie forze, ma mi verrà in aiuto anche ciò che il mio sforzo precedente ha prodotto: in altre parole, avrò accumulato un certo tapas.
Ciò che prima si trascinava, ora trascinerà, tanto che uscire dal flusso potrebbe essere a un certo punto più dispendioso che rimanervi. In altre parole, si verifica uno degli eventi più felici e necessari per chi siede in meditazione o pratica un’altro asana a lungo: la constatazione di stare bene dove si è, perché ciò che non è qui, non è da nessuna parte.
Abbiamo quindi alcuni elementi, nella pratica dello yoga come nelle attività quotidiana, per distinguere il tapas dall’automortificazione sterile e fine a sé stessa: quest’ultima, infatti, va a detrimento delle nostre energie e richiede uno sforzo continuo a fronte di risultati limitati, oltre a richiedere un controllo costante e progressivo.
Il tapas si distingue perché, una volta raggiunta la temperatura di ‘ebollizione’, diventa una forza trainante in sé: è possibile quindi quell’abbandono dello sforzo che può avvenire soltanto se c’è qualcosa da abbandonare, quel lasciare andare che, come la freccia di un arco, presuppone il rilascio di un’energia precedentemente caricata.
Che cosa ho lasciato andare troppo presto? In che cosa sto insistendo inutilmente? Queste domande non dovrebbero trovare mai una risposta definitiva. Ma soprattutto: che cos’è lasciare andare? Non è, a volte, ricadere nei soliti circuiti consolidati, così come resistere non è, in alcuni casi, arroccarsi nella propria isola del Pacifico, ignorando o peggio rifiutando di riconoscere che la Guerra è finita?
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