Da molti anni lo studioso e neuroscienziato J.H. Austin si interessa di processi cognitivi, neuroanatomia e neurofisiologia della meditazione. Oltre a decine di suoi articoli in ambito neuroscientifico, sicuramente il libro intitolato Zen and the Brain, di cui è autore, ha segnato un punto cruciale nella ricerca in questo ambito.
Un recente articolo, pubblicato sulla rivista Frontiers in Psychology, cerca di riassumere brevemente, per quanto possibile, alcune delle scoperte di Austin in oltre 30 anni di ricerca sulla meditazione in ambito neurofisiologico. [1]
Come inizio del suo approccio a questa problematica, Austin fa emergere chiaramente come due mondi apparentemente inconciliabili quali la neurofisiologia e lo Zen in realtà abbiano molti più punti in comune di quello che si possa immaginare, e come i neuroscienziati possano intuire molto delle dinamiche e dei processi cognitivi dallo studio di questa tradizione, e viceversa.
Contenuti
Cenni Storici
Come già tracciato da Francesco Vignotto su questo blog, lo Zen è una corrente buddhista giapponese che a sua volta deriva dalle scuole Chan cinesi, a loro volta fondate secondo la tradizione dal leggendario monaco indiano Bodhidharma nel V secolo dopo Cristo.
Il termine Zen sarebbe proprio l’adattamento in Giapponese del termine Chan, che a sua volta traduceva il termine sanscrito dhyāna che nell’insegnamento originale del Buddha è il termine utilizzato per descrivere, per quanto possibile a parole, lo stato di meditazione.
Sarebbe tuttavia riduttivo ricondurre lo Zen/Chan al solo alveo del buddhismo (alle cui scritture riserva peraltro un’attenzione limitata), perché reca altrettanto evidente l’influsso del taoismo, da cui ha ereditato l’approccio essenziale e immediato.
Ciò è particolarmente evidente proprio nella pratica meditativa più conosciuta, lo Zazen, definita in una serie di trattati dal fondatore della scuola Zen Soto Dogen Zenji (1200-1253).
Attraverso il controllo di corpo (la postura), respiro e mente (i cui soffi e i cui pensieri vengono osservati senza interferire, come nuvole che passano nel cielo) nello Zazen la meditazione è concepita non come un mezzo di progressiva verso l’illuminazione, ma spesso come l’esperienza stessa del risveglio.
Risveglio, illuminazione, ovvero satori, che spesso viene descritto come evento fulminante e al tempo stesso come “niente di speciale”, affermazione apparentemente sul filo del paradosso (lo Zen ama i paradossi, anche quando si fa gioco di sé stesso) che allude alla caduta di quel diaframma tra il sé e l’altro di cui parleremo tra breve.
I quattro capisaldi Zen
Austin, prima di entrare nel vivo del discorso, accenna brevemente a quattro capisaldi dello Zen che aiutano a comprendere meglio alcuni aspetti di questa Tradizione e i fini che si prefigge:
- il consapevole allenamento dell’attenzione e della percezione durante le attività del vivere quotidiano;
- l’eliminazione delle abitudini negative esageratamente centrate su sé stessi (egoisitiche) e i comportamenti che portano a uno spreco di tempo e di energia;
- l’aumento delle capacità personali intuitive di introspezione;
- l’applicazione di queste capacità interiori in maniera continuativa e costante con aumentata compassione sia verso gli altri esseri che verso sé stessi. [1]
Sé e altro da sé (self and other)
Esiste un lungo sentiero di allenamento mentale che può condurre ad adattamenti importanti del carattere e sono due i domini cruciali che intervengono nell’influenzarlo: il sé e ciò che è diverso da sé, meglio definito di seguito come altro.
Il primo rappresenta la coscienza distintiva interiore di noi stessi come individualità. Il secondo si riferisce alla consapevolezza dell’esistenza dell’ambiente fuori dalla nostra pelle. Questa distinzione e la trasformazione che viene prodotta nel soggetto che riesce a superarla e trascenderla, è descritta col termine “illuminazione”: uno stato di aumentata consapevolezza che ha trovato una testimonianza importante ad esempio proprio nella figura di Siddharta Gautama, il Buddha storico, chiamato anche appunto “l’illuminato”.
Tuttavia, nonostante questo sia sostanzialmente il punto di arrivo, o comunque un traguardo già molto avanzato, in tutte le tradizioni è importante l’iniziale riconoscimento e consapevolezza dell’esistenza di questi due domini con l’obbiettivo finale però di trascenderli. [1]
Neuroscienze e Meditazione
1. I due network attentivi
La ricerca neuroscientifica ha identificato due fondamentali network attentivi operanti a livello corticale che vengono comunemente identificati in questo ambito con i termini “dorsale” e “ventrale” rifacendosi a grandi linee alla loro localizzazione anatomica all’interno del sistema nervoso centrale. Quello dorsale quindi risulterebbe localizzato in posizione posteriore, mentre quello ventrale in posizione più anteriore. [2-4]
Negli studi di Austin è emerso come nei praticanti meditazione i sistemi attentivi dorsali si attivino maggiormente durante le pratiche meditative di focalizzazione e concentrazione. Al contrario, i sistemi attentivi ventrali sembrano attivarsi di riflesso durante le più sottili forme di attenzione e negli stati di consapevolezza definita più “generalizzata”. Importante ricordare che quest’ultima via viene coltivata più gradualmente durante le pratiche meditative che sono più apertamente centrati sulla ricettività.
2. La percezione sé-altro
Oltre ai due sistemi evidenziati nel paragrafo precedente la ricerca nell’ambito delle neuroscienze ha anche prodotto notevoli contributi sui correlati legati alla problematica della percezione sé-altro da sé. Anche a questo livello sono stati identificati due circuiti principali di processazione di queste due percezioni che, curiosamente, sono anch’essi a localizzazione dorsale e ventrale all’interno del sistema nervoso centrale.
Secondo Austin, questi network producono consapevolezza attraverso due percezioni anatomicamente separate della realtà che vengono poi rapidamente fuse senza cuciture e sintetizzate in un’unica percezione. [1-3] La consapevolezza di noi stessi (o del sé o autoconsapevolezza o Egocentrica) è localizzata a livello dorsale ed è anche la prima ad essere abitualmente processata. La Figura 1 illustra come il circuito dorsale può interagire con il senso del tatto e con la propriocettività, due funzioni localizzate a livello del lobo parietale. Questa sovrapposizione è conveniente perché il tatto e la propriocezione ci aiutano a manipolare oggetti tangibili all’interno dello spazio localizzato vicino al nostro corpo, aiutandoci a definire quello che Austin definisce come una sorta di “spazio vitale” a spazio “a portata di mano”.
Questo circuito neurale di processazione superiore, localizzato, come si vede in Figura 1, a livello occipito-parietale segue una traiettoria che a tratti si sovrappone a quelle regioni laterali e superiori corticali che rappresentano lo schema somatico del nostro sé fisico secondo lo schema dell’Homunculus sensitivo e motorio schematizzato in Figura 2.
Tuttavia è riduttivo sintetizzare il senso di questo circuito al semplice “Dove?” al fine di permetterci di capire se possiamo o meno afferrare e/o interagire con un oggetto. In realtà, secondo Austin, la domanda è strutturata in maniera più complessa, in modo da coinvolgere le tre dimensioni del nostro spazio personale: “Dov’è l’oggetto in relazione a Me e al mio corpo?”. [1-3]
Il secondo circuito, denominato ventrale, è invece associato ad altre capacità percettive come la vista e l’udito. Oltre ad avere una localizzazione anatomica molto diversa rispetto al circuito dorsale (parti inferiori del lobo occipito-temporale e frontale), tale circuito processa informazioni legate non tanto alla percezione del sé come il circuito dorsale ma più legate ad una modalità percettiva “allocentrica” (Allo, dal greco, significa semplicemente “altro”). [1-3]
Questo circuito tuttavia secondo Austin, lavorerebbe come in secondo piano rispetto al circuito dorsale egocentrico, in maniera quasi silenziosa, sotterranea e semi-nascosta, restando autonomo e poco controllato dalla nostra coscienza.
Perché ci risulta così poco familiare l’esistenza di questo altro percorso (pathway), che si riferisce a ciò che è “altro” dal nostro sé? Secondo Austin, perché questo inizia ad operare in maniera anonima, rispondendo alla domanda “cos’è quell’oggetto?” e, istantaneamente, abilità subconscie e circuiti corticali di riconoscimento identificano tale oggetto e per concludere simultaneamente altre abilità ne decodificano il significato. [1-3]
3. L’Interazione
Sulla base delle due vie precedentemente descritte, secondo Austin, i nostri processi coscienziali ordinari sono inconsapevolmente determinati dalla fusione e sovrapposizione senza interruzioni di continuità delle percezioni e informazioni veicolate da questi due circuiti. [1-3]
Queste dinamiche svaniscono quando l’intera via Egocentrica Dorsale (cioè il sé) viene rilasciata, o meglio controllata, raggiungendo quegli stati di super-consapevolezza definiti “illuminazione” o satori nello Zen. Lo Zen (e in generale il Buddhismo) appunto usa come metafora di questo stato di vacuità senza identità ottenuta dopo l’abbandono da tutti i precedenti attaccamenti: “Il fondo fuoriesce e rilascia il suo contenuto pieno d’acqua”. [1-3]
A questo punto, soppressa la processazione “egocentrica”, la processazione “allocentrica” emerge senza rimanenti veli o limitazioni e le sue innate capacità subconscie, percepite isolatamente, vengono rivelate per la prima volta. Ma prima di approfondire queste dinamiche è utile proseguire nella descrizione di altre strutture cerebrali che intervengono nelle dinamiche cognitive che sottendono a questi stati.
4. Default Network
Oltre alle quattro vie descritte in precedenza (dorsale e ventrale ed egocentrica e allocentrica), le neuroscienze hanno coniato il termine “default network” (letteralmente rete predefinita e/o automatica) per indicare un largo agglomerato di regioni corticali molto eterogenee e anche distanti anatomicamente che però cooperano in modo attivo.
Le tre principali e più estese di queste aree occupano la Corteccia Prefrontale (PFC) mediale, la corteccia parietale posteriore mediale e la corteccia laterale del giro angolare, ma ne fanno parte molte altre, come rappresentato in Figura 3 e 4. In questo network e nelle sue diverse estensioni coesistono rappresentazioni contemporanee di funzioni sia “autobiografiche”, cioè legate al vissuto personale, che riferimenti spaziali.
Sono quindi presenti funzioni legate all’impressione di controllo (sovranità) personale [1-3] e contemporaneamente ciascuna di queste nozioni mentali riguardanti il nostro sé viene memorizzata come un evento coerente incapsulato nel contesto di un particolare riferimento spaziale o di una particolare situazione. [1]
Secondo Austin, questi dettagli topografici e scenici sono essenziali per permetterci di poter usare questi eventi processati e memorizzati in futuro; infatti soltanto se ciascun episodio è ancorato in un particolare punto del nostro ambiente, e in un particolare momento del nostro personale “time frame” allora ciascuno di questi episodi separati potrà organizzarsi in un dettagliato vissuto personale riutilizzabile anche in futuro, andando probabilmente a costituire le basi di quella che, in maniera molto superficiale e semplicistica, può essere secondo lui definita “Esperienza”. [1-3]
Una piccola osservazione di carattere personale: trovo riduttivo che il concetto di esperienza sia riconducibile soltanto a questa dinamica, anche perché a volte capita che soggetti affetti da amnesia riescano a svolgere delle attività pur senza aver alcuna memoria e/o nessun riferimento spazio-temporale del loro passato.
5. Ritmi e Metabolismo Cerebrale
Da quanto emerso finora il cervello quindi oltre a tutte le normali funzioni deve sostenere una notevole quantità di funzioni e processi legati al proprio vissuto personale e alla percezione del sé. Ma quanto impattano sul metabolismo generale cerebrale tali funzioni e il sostentamento delle aree deputate alla loro processazione?
A questo punto Austin fa un breve riassunto dei principali studi eseguiti con tecniche di imaging dinamiche per valutare il metabolismo cerebrale di tali aree. I primi studi con Tomografia ad emissione di positroni (PET) mostrarono che le vaste aree eterogenee descritte in precedenza riguardanti tutto ciò che è referente al sé richiedevano un metabolismo continuo ed attivissimo anche durante condizioni di apparente riposo. [1,2,5]
Stesse dinamiche erano state rilevate anche tramite risonanza magnetica funzionale (fMRI) che aveva evidenziato come i segnali provenienti da tali aree diventavano addirittura più attivi (sopra ad arbitrari livelli di base) quando i ricercatori assegnavano ai soggetti in studio degli specifici task (azioni codificate) referenti alla percezione di sé, [1,2,5] mentre si riducevano drasticamente sotto i livelli basali nell’istante in cui uno stimolo esterno catturava l’attenzione del soggetto.
Ulteriori studi di fMRI rivelarono un altro importante fatto: l’attività di queste aree corticali localizzate in posizione mediale e referenti al sé avevano un’attività inversa rispetto a quelle a localizzazione laterale, deputate ai processi attentivi. [1,3]
Secondo Austin, queste due macro-aree cerebrali separate legate una al sé (mediale) e l’altra all’attenzione (laterale) cooperano, ma in direzioni opposte, in maniera sinusoidale creando un lento e spontaneo ritmo endogeno. Questi ritmi reciproci non richiedono per attivarsi di stimoli esterni e ricorrono lentamente, circa tre volte al minuto, in un largo ciclo indipendente. [6]
Lo psicologo svizzero Walter Hess, che vinse il premio Nobel nel 1949, documentò le capacità dinamiche nascoste nelle regioni diencefaliche profonde. [1]
La prosecuzione ad oggi di questi studi rende plausibile l’ipotesi che alcune regioni cerebrali (dentro e attorno al talamo) possano essere l’origine di questi ritmi inversi spontanei documentati nei precedenti studi di fMRI. Dopo tutto questi sono dei cambiamenti a ritmo lento o veloce paragonabili all’ON/OFF di un interruttore che reclutano, ciclicamente, regioni corticali differenti che svolgono attività cruciali sia per i processi attentivi che per la rappresentazione del sé.
6. Ruolo del talamo
Il Talamo è una delle stazioni fondamentali di processazione a livello cerebrale di qualunque tipo di percezione ed esistono intricati circuiti interattivi che collegano e fondono le funzioni talamiche con quelle corticali. [5]
Tutte le nostre sensazioni salgono verso la corteccia attraversando i suoi nuclei (tranne l’olfatto) e quindi, secondo Austin, il talamo funziona come un importante pacemaker per tutto il cervello. In particolare, secondo Austin, risultano fondamentali tre nuclei limbici localizzati anteriormente al talamo che fanno da staffetta per i messaggi ad elevato carico emotivo veicolandoli dal sistema limbico fino alle aree legate al sé della corteccia, ricevendo infine risposte da veicolare in direzione opposta provenienti appunto da queste aree corticali.
Quindi questi tre nuclei limbici interagiscono con la maggior parte di quelle regioni associative corticali evidenziante in precedenza (mediali, egocentriche) organizzate in maniera da rappresentare i principali aspetti autobiografici del nostro sé correlati con le sue memorie topografiche. [1-3] Austin ha dimostrato come questi nuclei e le corrispettive regioni corticali si coattivino non solo durante un acuto emergere di sovraccarico emotivo, ma anche durante il conseguente processo rimuginativo. [1,2,3,5,7]
Tuttavia, nonostante queste connessioni bidirezionali talamo-corteccia semplificate all’estremo da Austin, esse ci forniscono soltanto una piccola e incompleta spiegazione di come tutto il nostro vissuto (percezioni, emozioni etc.) venga registrato e sedimentato nella memoria a lungo termine. Rimangono quindi le seguenti domande:
Come può il cervello liberarsi delle stratificazioni profonde legate alla percezione del sé? Come agiscono le tecniche di meditazione a tal proposito? E nello specifico riguardo allo Zen cosa accade negli stati di aumentata consapevolezza e risveglio come Kensho (uno stato di profonda consapevolezza che precede l’illuminazione) e Satori?
Prima di rispondere a queste domande è necessario introdurre un’ultima struttura encefalica coinvolta in questi processi.
7. Sostanza Reticolare
Il nucleo reticolare è un sottile strato di neuroni che avvolge i contorni del talamo e anche se ad oggi i dati di fMRI non lo contemplano, tuttavia esiste e i suoi neuroni rilasciano GABA, uno dei più potenti neurotrasmettitori inibitori. [5,7]
Potrebbe il GABA secreto da questo nucleo produrre un effetto “auto-annichilente”, cioè di soppressione della percezione del sé ? la risposta secondo Austin è si. E come avverrebbe questo processo? in virtù delle sue capacità selettive di calibrare la sincronizzazione delle nostre normali oscillazioni talamo-corticali. [6,8] Oltre a questa selettività vi sono le capacità di dissociare le funzioni visive dai due grandi circuiti descritti in precedenza, il ventrale e il dorsale. [9]
Il nucleo reticolare non agisce da solo, infatti ha due alleati inibitori, la zona incerta e il nucleo pretettale. La zona incerta rilascia GABA verso i nuclei talamici (incluso quello mediale dorsale) e il nucleo pretettale anteriore proietta sia al nucleo mediale dorsale che al laterale dorsale del talamo.
8. Neurofisiologia degli Stati Meditativi Profondi
Da quanto emerso in precedenza, esistono sostanzialmente dei circuiti con azione opposta, un default network e delle aree legate al talamo e alla sostanza reticolare che, agendo sui sistemi GABAergici sono in grado di sopprimere le vie legate alla percezione del sé.
Le parole anatta, no-self, e “non io” sono tra i termini standard usati per descrivere gli attributi di assenza del sé che si riscontrano in stati avanzati meditativi in cui è possibile manifestare questa soppressione della percezione del sé.
Essa è molto importante non solo, come vedremo, per lasciare emergere altri aspetti che normalmente sono silenziati dalla percezione del sé, ma anche per spiegare ad esempio come mai le radici profonde delle paure primitive vengano abbandonate nel processo di risveglio della coscienza durante stati meditativi profondi come il Kensho, esattamente come anche la sensazione personale del passare del tempo o acronia, ossia uno stato di coscienza caratterizzato dalla perdita della percezione del passare del tempo. [2,5]
Austin a questo punto si pone alcune domande: “Quali altri network cerebrali potrebbero rimanere attivi durante tali stati coscienziali? Quali evidenze ci offrono una potenziale spiegazione per la genuina impressione di Unità che pervade tutto il nuovo campo di esplorazione coscienziale indotta da questi stati?”
Da quanto emerso finora tra circuiti, strutture e processi cognitivi, secondo Austin, scorrendo la lista dei candidati, i più probabili sembrerebbero i circuiti “allocentrici”. Il loro coinvolgimento nella struttura di riferimento di ciò che è “altro” dal nostro sé non è una nuova esperienza.
Questa prospettiva “anonima” (senza la percezione del sé) è sempre stata lì, svolgendo tuttavia un ruolo nascosto e subordinato al circuito egocentrico del sé. Tuttavia queste risorse legate all’altro da sé, rese libere dalla dominanza del circuito egocentrico del sé, possono essere espresse in una maniera completa e senza inibizioni.
In empty anonymity, this now-unveiled other-referential mode is liberated into the foreground of consciousness, reifying the perfection of the whole mental field with a meaningful global objectivity beyond reach of mere words.
Nel vuoto anonimo, questa modalità svelata legata all’”altro” (o non-sé) è libera di agire sul piano coscienziale, perfezionando tutto il campo mentale con una nuovo significato globale e oggettivo che va oltre la portata delle parole.
E sorprendente quanto questa definizione di Austin[5] sia simile a quella di Dhyana fornita in altre tradizioni di cui abbiamo parlato qui. E ancora più interessanti alcune definizioni del concetto di “illuminazione”, ovvero il coronamento di tutti questi processi meditativi: [10,11]
An astonishingly fresh impression of immanent reality prevails throughout this non-dual state of “Oneness”: all things, seen selflessly in the total absence of fear, are comprehended “as they really are.”
A state of being empty of ego, but full of what can come through [i.e., allo-perception] when that ego has been let go of.Una sconvolgente nuova impressione di realtà immanente prevale attraverso questo stato di non dualità, di Unità: tutte le cose, viste senza il sé, nella totale assenza di paura sono comprese per “come veramente sono”.
Uno stato di vuota assenza di ego, ma colmo di quel qualcosa che può fluire quando l’ego è stato abbandonato.
Quindi secondo Austin, con il progredire del percorso meditativo la comparsa di una “nuova prospettiva” è preceduta dallo svanire della precedente percezione intrusiva del sé e il suo senso di sovranità.
Quando non esiste più il precedente sé egocentrico il “possessore” di queste percezioni inizia a “sentire” ciò che è intorno a lui con una particolare oggettività sconosciuta in precedenza. [1,2,5-7]
Tuttavia non bisogna concludere che la graduale diminuzione dell’ego durante decenni di pratica Zen rimuova quel pragmatico senso del sé che permette di risolvere le problematiche del vivere quotidiano adattandosi ad esse in un processo di aumentata maturità realistica.
In questo consiste l’allenamento orientato alla dissoluzione di queste distorsioni negative e neurotiche dell’ego che si difende attraverso i suoi condizionamenti e gli attaccamenti legati ad una scorretta percezione del sé. [7]
Precedente allo stato di Kensho viene descritto nella tradizione Zen uno stato denominato di “assorbimento interno”. [1,2] Modelli diversi sono stati proposti per spiegare questo stato alterno di coscienza chiamato “assorbimento interno” [7], che è descritto ad esempio nello Yoga come stadio di pratyahara, ossia appunto di ritrazione dei sensi verso l’interno.
Esso rappresenta uno stato preliminare, non raro durante i primi anni di pratica meditativa regolare. Fenomeni paradossi si possono manifestare in questo stato come visioni su sfondo nero, udire suoni particolari e una diversa percezione “non fisica” di sé dalla testa fino ai piedi.
Una spiegazione plausibile di questi fenomeni, secondo Austin, sono gli iniziali effetti dati dal blocco GABAergico sul network egocentrico che determina la percezione del sé. [1,2,5-7] Questa inibizione può essere applicata a livello talamico previene la risalita degli impulsi alla corteccia, portando ad una iniziale soppressione delle sensazioni e della percezione del sé.
Conclusione
Da un punto di vista medico, le implicazioni sono molte e molte le domande. Tutto è semplicemente riconducibile ai due circuiti e alle loro interazioni? E i ricordi? E l’elaborazione e sovrapposizione di questi ultimi con ciò che accade ad ogni istante come avviene? E “l’esperienza”?
Sicuramente siamo lontani dal raggiungere risposte esaustive a queste domande, tuttavia ciò che emerge a livello embrionale come ipotesi è la consapevolezza che il cervello non abbia una conformazione strettamente topografica legata alle sue funzioni ma che piuttosto operi per aree che a seconda della situazione e dell’azione necessaria si attivano simultaneamente come un mosaico, creando quindi infinite conformazioni e possibilità di attivazione e quindi infiniti utilizzi e potenziali funzioni del cervello stesso.
Ciò apre ad una visione non più solo bidimensionale del cervello, ma tridimensionale e forse anche quadrimensionale, sempre ammettendo che la nostra mente (non solo la) e la nostra coscienza siano localizzate solo ed esclusivamente lì.
E qui torniamo alla tradizione Zen, che, come abbiamo visto (sempre in Meditazioni per non uscire dal mondo), appartiene a quella molto più vasta corrente secondo la quale la Coscienza è anteriore al senso dell’io stesso con cui si identifica.
Il lavoro di Austin ha il merito di aver fornito una chiave in più, in ambito scientifico, per comprendere come la meditazione, sia essa ottenuta tramite un processo o per immediato riconoscimento, sposti l’accento dall’io alla Coscienza stessa.
Uno slittamento appena impercettibile quanto il passaggio dalla veglia al sonno, “niente di speciale”, che nulla cambia formalmente ma che proprio per questo è l’essenza di un vero ri-conoscimento: ovvero prendere atto della Realtà così com’è, spoglia dalla pretesa di deformarla secondo la propria egocentrica immagine e somiglianza.
Una Realtà che non è soppressione del sé in favore dell’altro, bensì una terza condizione estranea all’esperienza ordinaria ma che non nega l’ordinaria esperienza. Ancora una volta, “niente di speciale”.
Bibliografia
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[2] Austin JH. Selfless Insight. Zen and the Meditative Transformations of Consciousness. Cambridge, MA: MIT Press, 2009
[3] Corbetta M, Shulman GL. Spatial neglect and attention networks. Annu. Rev. Neurosci. 2011. 34, 569–599. doi: 10.1146/annurev- neuro-061010-113731
[4] Kubit B, Jack A. Rethinking the role of the rTPJ in attention and social cognition in light of the opposing domains hypothesis: findings from an ALE-based 73metaanalysis and resting-state functional connectivity. Front. Hum. Neurosci, 2013, 7:323. doi: 10.3389/fnhum.2013.00323
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[6] Austin JH. Meditating Selflessly. Practical Neural Zen. Cambridge, MA: MIT Press, 2011
[7] Austin JH. Zen and the Brain. Toward an Understanding of Meditation and Consciousness. Cambridge, MA: MIT Press, 1998
[8] Minn B. A thalamic reticular networking model of consciousness. Theor. Biol. Med. Model, 2010, 7, 10. doi: 10.1186/1742-4682-7-10
[9] Austin J. H. Zen-Brain Horizons. Living Zen With Fresh Perspectives. Cambridge, MA: MIT Press, 2014
[10] Boyle R. What is Awakening? (Appendix 2 is a Personal Summary). New York, NY: Columbia University Press, 2013
[11] Shodo Harada Roshi. “The Path to Bodhidharma,” in The Path to Bodhidharma. The Teachings of Shodo Harada Roshi, eds J. Lago (Transl.) and P. D. Storandt (Boston, MA: Tuttle), 2000, 162
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