Gli stadi dello Yoga sono stupore
Vasugupta, Siva Sutra
Negli ultimi tempi mi è capitata più volte sotto gli occhi la traduzione di un articolo di un insegnante di Yoga americano intitolato Il lato oscuro dello yoga, che descrive molto bene quel momento in cui, passati i primi entusiasmi, lo yoga sembra “non funzionare più”. Momento in cui, in realtà, lo yoga comincerebbe a far sentire sul serio i propri effetti, facendo emergere emozioni negative sotterrate da molto tempo.
L’articolo è a una prima lettura condivisibile sotto molti aspetti ed emotivamente molto coinvolgente. Tuttavia, a freddo, mi ha anche suscitato qualche perplessità: sarà solo una mia impressione, ma nel rileggerlo a freddo sorge il dubbio che dalla gioia iniziale della scoperta il praticante medio di Yoga piombi in un abisso depressivo da cui non si solleverà più la testa se non per fugaci boccate d’aria.
Sebbene affrontare la depressione – invece che evitarla – sia un momento formativo irrinunciabile, il sapore che alla fine mi ha lasciato questo articolo assomiglia molto di più a quello dell’ipocondria, quello scoramento che ho descritto già recentemente comune a molti praticanti di yoga e di meditazione educati a fissarsi solo sui propri limiti: la ricerca di una perfezione formale della tecnica, ad esempio, o l’attesa che la spazzatura emersa dal passato si dissolva da sé.
Tutti obiettivi che per ragioni strutturali non verranno mai raggiunti, mentre la frustrazione allontanerà sempre di più la possibilità di fare un passo oltre proprio perché alimenterà il mito dell’assolutezza del condizionamento.
Il rischio a questo punto è proprio di trincerarsi dietro una visione romantica: “Lo Yoga è una storia d’amore dove tutto sembra crollare” afferma titanicamente l’autore dell’articolo, ma quando la situazione entra in stallo e si invetera allora scivoliamo piuttosto nella routine di una mediocre vita coniugale. E in effetti, nello stesso articolo si afferma con lo stesso disincanto del post-innamoramento che “lo Yoga non è meraviglia: è onestà”.
Siccome ho visto fin troppe persone passare la propria esistenza nelle retroguardie dopo fulminanti exploit, col tempo ho cominciato a sospettare che forse c’è qualcosa che non va c’è anche nel modo lo yoga viene trasmesso, e che rimproverare la mancanza di perseveranza è spesso per gli insegnanti un alibi e una mancanza di delicatezza imperdonabile.
Se è vero che molti allievi inizialmente entusiasti abbandonano alle prime avvisaglie di difficoltà, in una certa misura il calo fisiologico è un bene, anche perché a volte la pratica si scontra con problematiche non sempre evidenti che vanno affrontate in altra sede: occorre ricordarsi che lo Yoga repelle il lettino dell’analista, mestiere che bisogna lasciare a chi sa e può farlo.
Ma è anche vero che molto spesso, a chi persevera, non si è in grado di fornire lo stimolo adeguato per evitare di arenarsi in una routine che nel lungo periodo somiglia molto a farsi una quotidiana nuotata nei fanghi della propria personale palude.
E invece non solo tutto crolla, ma è già tutto crollato prima ancora di iniziare se non si guida verso l’evidenza, anche attraverso la più elementare pratica, che la ripetizione non esiste: tutto si crea a ogni istante. Lo Yoga è stupore, non esiste la ‘routine yogica’, nemmeno se formalmente si eseguono per anni ogni giorno le stesse tecniche.
L’āsana o il soffio sono spesso solo un pretesto: se si pensa che sia la postura o la pratica stessa a fare effetto – o ad averlo fatto in quelle prime magiche lezioni – non si è colto il senso di questa pratica. Se lo Yoga non insegna a dissolvere la patina di noia, di scoramento, di interpretazione derivanti dalle passate esperienze – si badi bene: anche e soprattutto quelle positive – allora non è Yoga. Diventa esso stesso fonte di noia, è ripetizione di un gesto ginnico senza la dignità del ginnasta.
Bisogna tuttavia che l’insegnante per primo ne sia convinto e agisca in modo consono, mettendo instancabilmente e strenuamente in discussione quello che crede di aver conseguito, a prescindere dai pezzi di carta appesi all’ingresso. Naturalmente, come abbiamo spiegato altrove, non si può essere adatti a tutti – vivaddio – e sono contemplati numerosi ruzzoloni, ma se l’insegnante stesso è fiaccato e deluso da ciò che insegna, se incoraggia il lamento e il ripiegamento su sé stessi, non si può sperare che produca grandi risultati.
A voler essere ancora più precisi: di fronte all’inevitabile emergere di passati traumi (ma ripetiamoci: lo Yoga repelle il lettino dell’analista), l’insegnamento dello yoga è la non esistenza del passato. Se tuo padre ti diceva sempre di no o se il tuo partner ti ha tradita, tutto questo, qui e ora, non esiste, come non esiste quel momento magico in cui hai scoperto lo Yoga, quando insomma “funzionava”: occorre anche essere spietatamente equanimi verso gioie e dolori, perché lo Yoga non ha lati oscuri e lati chiari, semplicemente non ha lati. Se ne avesse, sarebbe un gioco di contrapposizione, mettendo il praticante contro sé stesso.
Naturalmente, esistono momenti in cui il dolore – o la gioia – sono così attuali, e allora non resta che viverli. Ma occorre chiarire che non c’è veramente nulla e nessuno da comprendere nello Yoga, nessun male da cui guarire, nessun passato da risolvere: tutto il resto compete al terapeuta, a cui c’è da augurare davvero buon lavoro e buona fortuna.
Quanto descritto non è un obiettivo lontano e trascendente ma è una possibilità concreta e immediata a cui può accostarsi chiunque lo faccia con sincerità e con la giusta apertura, ed è anzi più spesso a portata di mano proprio quando sembra fallire il risultato tanto desiderato. Perché ciò accada, non bisogna aspettare sospendere il respiro per mezze ore o eseguire la capovolta sulle mani.
Se ciò appare tanto impossibile, se la via appare tanto irta di ostacoli e avara di risultati, dovremmo forse farci qualche domanda sui vari sistemi e gli stili nati negli ultimi decenni, spesso vacanti di una visione più globale del perfezionamento di saltelli e mossette tra le posizioni o dell’allineamento maniacale di particolari anatomici, mentre qualcuno ci parla di Dio e si attivano chakra con un salto percettivo per l’allievo incolmabile.
“La maggior parte delle discipline nascondono effetti negativi, essendo concepite non per liberare, bensì per limitare” recitava Frank Herbert, come ho già citato altrove, anche se in questo caso la realtà è spesso molto più prosaica.
Dietro il giro di giostra dei certificati e delle autocelebrazioni, lo Yoga oggi è spesso per molti una gabbia che alla lunga non piace proprio come un coniuge sbagliato, ma vi si rimane perché ormai si è sottoscritto il mutuo e vi è pur sempre una casa dove la televisione è accesa al massimo volume, anche se nessuno ci ha insegnato come invitare gli ospiti indesiderati che la infestano a trasformarsi in collaboratori domestici.
Ma se tutto il resto è noia, allora preferirei di no. Nello Yoga, per parte mia, non occorre chiedere il permesso al curatore fallimentare.
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Gaetano dice
Sagge parole le tue, la tuttologia e acrobazia yogica non ne fanno parte. Grazie della riflessione