Se nell’articolo precedente prendevamo in esame chi si accosta oggi allo yoga e alla meditazione, rilevando che si tratta di una circostanza particolarmente favorevole, in questo nuovo articolo parliamo invece di chi si trova immerso in questo mondo da qualche tempo ed esprime la propria – spesso giustificata – insofferenza nei confronti di una certa approssimazione dilagante. Ma attenzione a non buttare via anche il bambino…
Le cazzate pseudospirituali fanno male, su questo siamo tutti d’accordo. Non se ne può più di energie e pensieri positivi, di beveroni sciamanici, sorellanze e fratellanze con cui il mondo dello yoga e dintorni ha messo alla berlina sé stesso. Io stesso non riesco ormai più a pronunciare la parola namastè, anche solo mentalmente, senza visualizzare la targa della Jaguar di Howard Hamlin in Better Call Saul.
Però, se siamo tutti d’accordo e nonostante questo non abbiamo abbandonato la pratica e bruciato tutte le copie della Bhagavad Gita (un gesto davvero rivoluzionario sarebbe: leggerla), probabilmente ciò vuole dire almeno due cose: che il nostro profilo psicologico non è compatibile con il reclutamento in QAnon (o siamo troppo spocchiosi, a seconda dei punti di vista), e che soffriamo di un inconfessabile dissidio interiore.
Non c’è infatti come inveire contro i falsi dèi, per trovare tutti d’accordo. Salvo però, quando bisogna dire qualcosa di positivo (arriva anche quel momento), trovarsi di fronte al dilemma: pronunciare qualche frase fastidiosamente simile alle false preghiere, o mugugnare qualche distinguo talmente sottile di cui nessuno comprenderà nulla, tranne che ‘noi non siamo come loro’.
Il problema è che possiamo dirci per una spiritualità razionalista, possiamo addirittura abolire del tutto la parola spirito – ormai squalificata a mera categoria merceologica – e ribadire la nostra fede nella scienza contro la superstizione, ad esempio, delle medicine alternative. Tuttavia, se continuiamo a sederci nonostante tutto sul tappetino, almeno un presupposto dobbiamo ammettere di condividerlo con gli adoratori dei falsi dèi: che esista qualcosa al di là della ragione. Certo, ciò non significa buttare nella pattumiera la propria intelligenza, tuttavia se non concordiamo che non è quest’ultima ad avere l’ultima parola, allora probabilmente siamo noi gli impostori, gli stanchi mimi di una gestualità in cui per primi non crediamo più.
La nostra posizione è particolarmente delicata, ma riflette un dilemma comune alla società dell’informazione contemporanea, perciò chiedo il permesso per una piccola digressione.
Oggi il termine fake news è entrato nel gergo comune (se ne parlava, nelle nicchie, già una decina d’anni fa, ma siccome le baggianate facevano grossi volumi e l’avvelenamento dei pozzi non aveva ancora manifestato le sue funeste conseguenze, i più erano propensi a non andare troppo per il sottile). Vi è entrato, come sempre, in termini binari: un’informazione è o totalmente vera o totalmente falsa. È anzi significativo come la questione sia sempre posta in termini di verità, e non, ad esempio, di esattezza, accuratezza od obiettività, tutti termini che invece sono più propensi a contemplare delle sfumature. No: oggi un’informazione è da accogliere o rigettare in toto. Non può essere accolta con riserve. Ciò significa l’impossibilità del dialogo, ma per alcuni anche l’espunzione di intere dimensioni della vita.
Al di fuori dei laboratori, infatti, sono rari i casi di assenza di sfumature. È difficile stabilire che una notizia sia completamente vera, al netto della percentuale fisiologica di approssimazione, di interpretazione e di varie ed eventuali variabili (sì, anche i numeri, anche i ‘dati’, verso cui nutriamo una venerazione quasi patologica, sono sempre il frutto di una selezione). È altrettanto difficile che prenda piede una notizia totalmente falsa, non fosse altro che ciò che è inventato di sana pianta è molto meno credibile e molto più difficile da rendere verosimile, piuttosto che prendere spunto da una verità manipolandola. Una mezza verità è molto più efficace e anche molto più velenosa, perché una volta riconosciuto che c’è del marcio, difficilmente riusciremo a non associare il disgusto anche agli elementi di verità.
Così, siccome siamo nei paraggi da qualche anno, viene la tentazione di arrampicarsi sugli alberi al solo suono di parole come energia, vibrazione, forse anche cuore, per le troppe volte in cui abbiamo sentito parlare di ingenue o pelose pulizie di centri sottili; ci si accappona la pelle al suono della parola karma, o a sentirci ripetere che bisogna abbandonare l’ego o abbandonarsi e basta, a causa dei troppi farabutti che hanno utilizzato queste parole per nuocere agli altri ed esercitare i propri porci comodi. Sfugge un sorrisetto – e forse perché ci abbiamo creduto un po’ anche noi – nel sentire ancora ripetere che le torsioni depurano il fegato perché lo strizzano come una spugna. Eppure inviterei ad attendere prima di far scendere la scure.
Chiedo perdono se chiamo in causa un mantra giustamente diventato insopportabile come “ti faccio da specchio”, espressione utilizzata dalle macchiette paraspirituali per giustificare le proprie intemperanze attribuendole al proprio interlocutore. Si sarebbe tentati di rigettare il concetto come una cavolata tout court, ma possiamo tuttavia negare che contenga un fondo di verità, ossia che molto spesso ciò che nell’altro ci fa saltare la mosca al naso è, a ben vedere, ciò che abbiamo in comune con lui ma che stentiamo ad ammettere? Certo, ognuno dovrebbe preoccuparsi principalmente degli specchi che lo riguardano, piuttosto che di quelli altrui; tuttavia la questione riguarda, in senso più ampio, il rapporto tra la coscienza e la percezione di un mondo ‘esterno’ che del tutto esterno non è.
Tutto questo per dire, insomma, che mettere alla berlina i tic della spiritualità facile significa spesso anche orinare sopra attrezzi che prima o poi dovremmo utilizzare. Oltre, forse, a diventare un po’ più duri, mi si passi il termine, di cuore.
Che fare allora? Mi viene in mente un mondo che mi sta altrettanto caro, ovvero la poesia, dove periodicamente vi sono modalità espressive che diventano fruste e rappresentative soltanto di un mondo ormai svuotato del suo significato originario. In quei momenti, un atto di rottura è addirittura auspicabile, ma richiede la consapevolezza che è la forma a non essere più capace di veicolare senso vivente. Qualcuno ha detto addirittura abbasso i tramonti, ma ovviamente allo stereotipo, non al tramonto in sé. E allora la sfida più impervia, la prova del fuoco diventa parlare del tramonto, nonostante tutto.
Luciana Raiteri dice
Grazie
Paola Gioffredi dice
Bell’articolo! Anche a me tremano le vene dei polsi a sentire e a ripetere certe espressioni, ma forse la differenza si trova nell’esperienza vissuta. Il cercare di trasmettere qualcosa di percepito in maniera sottile affinchè possa aprire una microscopica fessura che inviti lo sguardo a entrare. Servono parole risonanti, come con la poesia, ma il linguaggio dei poeti non è alla portata di tutti.