Il rilassamento è un tema di interesse universale. Chiunque desidera abbandonare lo sforzo, anche i più stacanovisti cultori della fatica e persino i più masochisti seguaci di Wim Hof. Perché superata la china ci sarà la discesa, e non sarà la stessa discesa di chi vi è arrivato a bordo del suo Suv.
Si parla spesso di uscire dalla zona di conforto, ma se a qualcuno viene in mente di abbandonare la comodità e le false certezze è per trovare una tranquillità più autentica, un luogo dove deporre le armi; che per alcuni questo luogo possa trovarsi proprio nel mezzo della mischia, ci fa presentire che la questione è meno scontata di quanto sembrerebbe.
Da questo punto di vista, dunque, il rilassamento assomiglia al mito di Sisifo capovolto, ma non troppo: perché non desidero altro che far cadere a valle quel macigno; eppure, non passerà molto tempo che dovrò spingerlo di nuovo faticosamente a monte, perché, per un altro curioso paradosso, sprofondare nell’inerzia è tutt’altro che acquietante.
Può capitare che un giorno l’immagine di questo saliscendi appaia in tuta la sua comicità. E si desideri un abbandono definitivo. Ma in realtà, quel rilassamento ultimo che cerchiamo, quella tranquillità definitiva, non si trova più a valle e non si raggiunge prendendo la rincorsa più a monte: è al di là della quiete e dello sforzo, nonostante spesso sia necessario quest’ultimo per trovarlo.
Non dobbiamo illuderci però di possedere la tranquillità fondamentale una volta per tutte, soprattutto se ‘facciamo yoga’, che è un ottimo strumento di indagine, ma può anche diventare il tappeto sotto cui nascondere una polveriera pronta ad esplodere.
A questo proposito, tra i commenti a un articolo precedente, qualcuno raccontò che durante un seminario di yoga, mentre si trovava nella posizione distesa, l’insegnante gli si accostò urlandogli nell’orecchio: “TI DEVI RI-LA-SSA-RE!”. L’aneddoto non è soltanto tragicomico, perché noi tutti finiamo per introiettare quel maestro urlante, il volume della cui voce è proporzionale alla nostra impotenza.
Con lo yoga in un certo senso abbiamo perso l’innocenza, perché cominciamo a sentire un po’ più in dettaglio il corpo, e a sentire come piccole e grandi tensioni, piccole e grandi dissonanze permangono pressoché sempre – e chissà quanto l’ascolto stesso, ineducato alla passività, non contribuisca al loro alimento.
Siccome è facile concludere che la tensione è ‘cattiva’ e che il rilassamento è ‘buono’, potremmo struggerci perché non riusciamo a ‘lasciar andare’ se non a singhiozzi e contraccolpi (ma è anche facile addormentarsi in un reame ovattato dove non esistono attriti, niente giudizio, un giardino personale ben sigillato e sterile).
Purtroppo, o per fortuna, il rilassamento non può essere trasformato in un numero da circo. Occorre accettare il paradosso della volontà: l’inaspettato arriva, perlopiù non riconosciuto, quando l’ultimo membro del comitato di accoglienza ha abbandonato il presidio.
Proviamo allora a risalire ancora più a monte. Come abbiamo accennato in apertura, il rilassamento non implica necessariamente che si eviti lo sforzo, né la stravagante ricerca di una passività totale dei corpo, che oltre a essere vana e poco funzionale espone anche al rischio di procurarsi dei seri grattacapi.
Siccome poi abbiamo perso l’innocenza, occorre accettare il fatto compiuto. Ovvero: sentire fino in fondo, senza respingerla, la tensione in esubero nel compiere un movimento, nello stare in una posizione, anche nel respirare e nel pensare. A ben vedere, non è necessario nemmeno che abbandoniamo quella tensione, perché qui si imporrebbe il ‘come’ e il rimedio potrebbe essere peggio del problema: come faccio a ‘fare’ il ‘non fare’? Per questo è così facile iniziare a fumare o a mangiare in eccesso, e così difficile decidere di non farlo più.
Il rilassamento è nel privilegio dell’ascolto stesso. Se posso ascoltare, sono seduto comodamente anche se sto fuggendo a gambe levate da una belva feroce, c’è spazio sufficiente per contemplare quella esuberanza, quella sovra-reattività: sentire ciò che non voglio sentire, sentire il mio stesso non voler sentire! Voler essere rilassati, così come voler dimagrire o voler trovare l’anima gemella, è un altro modo per non sentire, per proiettarsi sulla circonferenza del pallone evitando accuratamente il centro.
Ascolto, invece, e ciò che sento non è il corpo, ma la sua corazza reattiva, l’orbita del respingere e dell’afferrare al di là della circostanza e di quanto richieda la circostanza. Buco il foglio, per scrivere il mio nome. ‘Spingo via’ il pavimento con le gambe. La mia mascella si serra, la gola, le stesse narici, che dovrebbero filtrare l’aria, più spesso ne ostruiscono il passaggio. La mia parete addominale allenata al prendere e lasciare il respiro finisce per anticiparne gli schemi. Sento, ma non considero questo corpo reattivo ‘altro’ da un corpo che non c’è, che non sento.
Bisogna voler bene alle nostre tensioni, è tutto ciò che abbiamo.
È importante lasciare l’interpretazione al terapeuta o allo psicologo, il cui indispensabile mestiere non ci compete – e con cui anzi potremmo cooperare meglio facendo ‘il nostro’. Perché le interpretazioni aggiungono spessore, e in realtà le tensioni sono stabili solo finché le riteniamo tali.
Quando la tensione ‘si rilascia’, si rilascia appunto: non c’è qualcuno ad abbandonarla. Per questo, quando avviene, è straniante. C’era qualcuno a tenerla, non c’è nessuno a lasciarla.
Ciò significa anche che, quando la tensione non ‘si rilascia’, non c’è fallo, nessun rimorso, nessuna conseguenza. Insistere nel volere, nel tentare, significa che c’è ancora qualcuno. Qualcuno che ancora non si arrende all’evidenza che sentire la gamba contratta è sentirla per la prima volta davvero; e all’evidenza ultima, allo scacco matto di tutti i corpo-a-corpo: la constatazione che non può essere altrimenti. Non esiste qualcosa come il silenzio, almeno se lo cerchiamo tra le cose e non attraverso le cose.
Il fatto è che il corpo, così come tratteggiato nei libri di anatomia, una volta caduta la tensione per forze di causa maggiore, non c’è. Questo non è l’omega ma l’alfa, lo spazio non più del pensiero lineare ma dell’intuizione, la dimensione fuori dall’ordinario con cui lo yoga non dovrebbe mai perdere il contatto.
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