E anche se arriverà sempre qualcuno più furbo degli altri a proporti qualcosa di più abbordabile, una risposta sensata alla domanda contenuta nel titolo potrebbe essere: occorre che si disimpari a usare; a fare per qualcosa; a prendere solo quello che serve, e a scartare quello che non sembra portare acqua al mulino.
È una non risposta, è vero. Ma non è possibile approcciare al tema della meditazione come un oggetto comune del discorso, se non per vie laterali. Meditare è un verbo ma ciò che indica non è un’azione né uno stato, non è una cosa, non è la tecnica che può essere insegnata, non sono le fasi descritte analiticamente nei libri per necessità didattiche.
La meditazione è confronto con il silenzio e il silenzio non è negoziabile, anche se possiamo essere più o meno permeabili, più o meno resistenti al silenzio e anche constatare la resistenza è già il silenzio. Ma anche questa è solo una formulazione, che come sempre non è da prendere alla lettera.
Se accostarsi alla meditazione insegna qualcosa, è che le delimitazioni sono solo delle idee, per quanto occasionalmente utili a raccogliere le energie disperse. Non è possibile stabilire fin dove si vuole arrivare, ed avere la garanzia di lì fermarsi: ad alcuni bivi si può decidere la direzione, ma una volta instradati in certe correnti, cedere diventa una virtù.
Da questa prospettiva, ciò che sperimentiamo come stress è proprio l’attrito lungo la frontiera, l’abuso di legittima difesa del sé nei confronti dell’altro da sé. Ciò che può suggerire la meditazione è che sono io ad aggredirmi nell’altro, e la mano rivolta contro di me sarà un invito a rimettere in discussione il confine stesso, anche se non necessariamente abolirlo.
Come scriveva proprio su questo sito Marco Invernizzi in Lo Zen e le neuroscienze:
Uno slittamento appena impercettibile quanto il passaggio dalla veglia al sonno, “niente di speciale”, che nulla cambia formalmente ma che proprio per questo è l’essenza di un vero ri-conoscimento: ovvero prendere atto della realtà così com’è, spoglia dalla pretesa di deformarla secondo la propria egocentrica immagine e somiglianza.
Una realtà che non è soppressione del sé in favore dell’altro, bensì una terza condizione estranea all’esperienza ordinaria ma che non nega l’ordinaria esperienza.
Perciò la meditazione volta ai conseguimenti mondani o spirituali, laica religiosa o agnostica, finalizzata al successo, alla salute, all’efficienza sul lavoro, ad accrescere l’autostima, sono delimitazioni di campo, nomi di imballaggio, laddove l’autenticità è proprio nello sgretolarsi delle linee, inoltrarsi nel non so.
Meditare è un non-atto rivoluzionario proprio perché significa dedicarsi a qualcosa che è radicalmente privo di utilità: forse questo è l’unico aspetto genuinamente terapeutico. Scegliere qualcosa che non ti renderà ricco anche se non hai soldi, non ti curerà da ogni male anche se sei malato, non migliorerà le tue prestazioni né ti salverà dal destino che attende tutti: scegliere quel niente ha qualcosa di eroico, è un soffio, ma è quel soffio per cui vale la pena vivere (e morire).
Sembrerebbe questo un discorso volto a scoraggiare, e invece è un avvertimento: c’è uno stadio ulteriore al disincanto, un senso che attraversa la mancanza straziante di senso, in cui ogni scheggia esplosa appare infine nella sua vera sede. È questo, ne sono convinto, il motivo di fondo, spesso inconscio, per cui la meditazione è un argomento che suscita un sincero interesse oggi, al di là delle mode e degli annunci sensazionali: c’è un bisogno primario e non alienabile di andare alla radice. Radice che è prossima, non privatizzabile.
Perciò, in questa sede, sono pressoché irrilevanti le questioni storiografiche o dottrinarie, ma conta solo l’urgenza: l’essere umano, l’inquietudine che lo accompagna, e una possibile via d’uscita.
Via di uscita che non può essere una via di fuga, altra illusione spesso ben mimetizzata e protocollata, ma un passaggio attraverso, estremamente disponibile in ogni momento: la questione, semmai, è imparare ad accettare tale disponibilità, anche quando si ha la casa in disordine e mai più si penserebbe di ricevere visite.
Tuttavia, sebbene a livello popolare si sappia che la meditazione ha a che vedere con la calma della mente, al tempo stesso sembra richiedere un impegno che è fuori della portata comune: ascoltare quando si vorrebbe parlare, stare immobili quando si vorrebbe scappare, concentrarsi a lungo su qualcosa quando si è continuamente distratti da altro, non grattarsi quando si prova un forte stimolo a farlo.
Tutto questo è in moltissimi casi una disciplina propedeutica indispensabile, ma può creare l’equivoco che la questione sia resistere, resistere a oltranza in una guerra di trincea senza tregua contro le proprie inclinazioni; invece, una volta acquisiti e interiorizzati gli strumenti, è d’obbligo capovolgere la prospettiva: la meditazione è la tregua.
Stabilire perché i combattimenti si siano arrestati proprio in quel momento, è simile al triste compito del sondaggista che all’indomani delle elezioni si trova a spiegare perché le sue previsioni sono state smentite dalle urne.
Per questo, la meditazione non è il discorso, ma il punto che riassorbe nel silenzio tutte le parole dette. Un punto che però non arriva per esigenze grammaticali, ma che per ragioni estranee al testo interrompe le trasmissioni, e ci si trova all’aperto quando neppure ci si ricordava di essere segregati.
Se l’attenzione restasse sulle parole, se l’accento rimanesse su ciò che facciamo, dal sederci al respirare o al cantare estaticamente, allora sarebbe una triste pantomima, un tastare nel buio alla ricerca di qualcosa che porterà a qualcos’altro ancora senza fine, è un tardo rituale che ha perso il senso originario di ciò che rappresentava: non è la formula salvifica ma l’aguzzino sotto un nuovo travestimento.
Certo, nonostante ciò e proprio per questo, vale la pena sedersi a meditare: ma consapevoli che lo sciogliersi della riserva probabilmente non arriverà durante la lezione settimanale, né di fronte a un tramonto sulla spiaggia, né durante il ritiro di vipassana; magari nei miasmi mattutini di un autobus affollato, o al culmine di una rovinosa litigata, o di fronte a una discarica abusiva.
E sarà di una semplicità talmente sconvolgente, che forse nemmeno sarà riconosciuto. Se la lotta sembrava persa in partenza davanti allo scalino troppo irto del silenzio, in realtà tu stai reggendo la parete, il silenzio è inevitabile.
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