Allagare il campo, o fare la pipì a letto
Patanjali paragona l’azione dello Yogi a quella di un contadino che rimuove gli ostacoli, permettendo così che il campo si allaghi. Come abbiamo visto, gli Yoga Sutra attribuiti al saggio indiano non indicano alcuna tecnica – anzi, affermano che qualsiasi tecnica agisce solo indirettamente: “La causa strumentale non determina le diverse tendenze naturali”1Yoga Sutra, 4,3).
Badiamo bene: rimuovere gli ostacoli, non crearli. Liberare, non limitare.
Ebbene, nella mia esperienza ho riscontrato che i soggetti con le maggiori difficoltà a rimuovere gli argini, sono proprio i praticanti – spesso veterani – di yoga e di discipline che si trovano sotto il cappello oggi piuttosto affollato dell’”olismo”.
Ma forse sarebbe meglio dire che i soggetti dediti a tali pratiche siano generalmente convinti – non “più consapevoli” – di avere dei problemi, indipendentemente dal fatto di averli veramente. Ad esempio, di avere problemi posturali o difficoltà respiratorie e che questi difetti siano veri e propri handicap invalidanti.
Questo perché molto spesso l’impostazione della pratica – e forse anche lo zelo dell’insegnante e una certa cultura del perfezionismo psicofisico – porta a enumerare i difetti particolari ma non a risolverli e anzi a esacerbarli sempre di più in una lotta del corpo contro il corpo, più che a sfruttarli invece come leve per ri-armonizzare il complesso.
Insomma, se James Hillman rimproverava alle teorie psicanalitiche la predilezione per i traumi, a volte ho l’impressione che questo Yoga for dummies condivida la stessa tendenza trasferendola non solo alla psiche ma anche al corpo.
Ma nel sutra citato più sopra Patanjali non si riferisce a un traguardo che si raggiungerà solo in corpo perfetto al parossismo della tecnica. Si riferisce all’irrompere, a un certo punto del percorso, di un evento straordinario all’interno di un quadro ordinario. Un evento il cui accadere non si può controllare: si può soltanto preparare il campo in modo tale che possa accoglierlo. Un’eventualità che può ricorrere a numerosi livelli.
Quello che vedo verificarsi molto spesso, invece, è uno stallo di cui la pratica stessa è la principale responsabile o, perlomeno, l’agente collante. Una sorta di ipnosi che, come nel brano che segue, perdura finché un evento straordinario non spezza l’incantesimo.
E allora raccontiamola questa storia.
Storia di P.
Una delle prime mattine dell’anno duemila-e-qualcosa, il trentenne Paolo A. si svegliò con un versamento e un edema reattivo al ginocchio destro, che divenne una palla di carne dolorante e molto suscettibile agli sforzi.
Paolo non ricordava di aver subito un particolare trauma fisico tale da giustificare il risultato. Risparmiamo qui le dietrologie che dovette subire riguardo al periodo di cambiamento che stava attraversando e sui conflitti irrisolti somatizzati. Stando ai fatti, il referto della risonanza magnetica risultò compatibile con una lesione “a secchio” ai menischi e fu unanimemente consigliato di farlo operare.
Ora, Paolo sapeva che un’artroscopia era ormai un’operazione di routine, ma per lui che non era mai finito sotto i ferri rimaneva una sorta di dramma. Inoltre, il seppur breve periodo di riposo fisico forzato non era compatibile con i suoi impegni lavorativi.
Ma c’era di più: questo infortunio era un affronto, perché Paolo praticava Yoga. Era un affronto perché significava che inconsapevolmente Paolo aveva perseverato in abitudini posturali deleterie che avevano condotto a quel patatrac nella sua articolazione. Si convinse che evidentemente c’era qualcosa che non andava nel modo in cui aveva camminato fino ad allora.
“È naturale quello che ti è successo, gli confermò un osservatore esperto, perché hai sempre avuto un’anca più alta dell’altra”. Quella rivelazione fu come per il protagonista di Uno, nessuno e centomila il difetto al naso fatto notare con nonchalance dalla moglie: tutta la sua vita fino ad allora apparve come una menzogna ovattata.
Camminare divenne allora una complicatissima occasione per assestamenti e ribilanciamenti del peso corporeo, in cerca di una nuova ‘quadra’, con lo stesso tormento di un insonne in cerca del lato giusto per dormire. Ma proprio come l’insonne, con i suoi continui aggiustamenti, allontana il sonno invece di favorirlo, il nostro Paolo A. accumulava sempre più impedimenti alla sua tranquillità posturale. Camminava, letteralmente, sulle uova.
E proprio quando gli sembrava di aver trovato l’assetto corretto, non di rado capitava qualche importuno collega di lavoro si avvicinasse con evidente falsa premura e lo schiaffeggiasse con la domanda: “Ancora male al ginocchio? Vedo che zoppichi di nuovo”. In momenti come quello poteva letteralmente sentire le schegge di cartilagine conficcarsi nella carne.
Per la prima volta in vita sua scoprì cosa significasse avere dolori ovunque e per la prima volta soffrì di mal di schiena, di sciatica e di tutti i problemi che compongono il classico rosario di chi “sta male” ma è un non-so-che di male, una fiacchezza costante, un bordone dissonante che non si disperdeva mai nel silenzio.
Infine, dopo diversi mesi e all’apice del disagio, Paolo si fece dare il numero di un Luminare dell’ortopedia e si presentò dallo specialista nello stesso stato d’animo in cui un criminale si presenta in questura per costituirsi.
Il medico guardò l’esito della risonanza di alcuni mesi prima e annuì: bisogna operare. Ma quando lo fece salire sul lettino e gli prese la gamba movimentandola in ogni direzione, con enorme sconcerto Paolo udì il Luminare esclamare che non poteva operare il suo ginocchio, perché era completamente sano.
Paolo gli indicò il referto sulla sua scrivania, che fino a un attimo prima provava il contrario: il Luminare fu inamovibile, il ginocchio era sano. Può darsi, commentò, che si fosse mosso durante la risonanza, o semplicemente Paolo era tra i pochi fortunati a cui il menisco guarisce da sé. Citò persino il caso di un oscuro calciatore che tornò a giocare ai massimi livelli dopo un infortunio proprio come il suo che con estrema saggezza dei medici non fu risolto chirurgicamente. “In ogni caso,” concluse “un menisco rotto fa male”.
In quel momento Paolo si accorse che da ormai parecchi mesi non sentiva più alcun dolore: si era arrovellato fino all’impazzire, ma dolore no, non ne aveva sentito se non nelle prime settimane. Si spezzò allora l’incantesimo, che non affliggeva direttamente la sua forma fisica, ma il suo stato di coscienza: l’involucro del malato immaginario si decompose come neve al sole.
Uscì dallo studio libero dal peso che lo aveva accompagnato fino a lì, senza più alcun pensiero di doversi correggere, di volersi riformare. La sua postura poteva dirsi dritta, sì, forse con qualche difetto, ma con una percezione immediata, globale, della propria stabilità, che non aveva bisogno di altre parole. Da allora saltò per molti sassi sulle montagne, e fece molte altre cose che un meniscopatico quale si era creduto fino a quel giorno non potrebbe fare; ma il suo corpo non se lo ricordava e quindi non patì alcun dolore.
Spezzare l’incantesimo
Avrai letto da qualche parte che in molti casi la sentenza definitiva giunge all’improvviso, per bocca di uno qualsiasi, in un momento qualsiasi.
Franz Kafka, Il processo
Dobbiamo precisare che Paolo A., oltre a tormentarsi molto per trovare di nuovo il modo corretto di camminare, era anche uno sgobbone, e in quegli stessi mesi si era anche molto impegnato nell’esercizio delle āsana, e questo – oltre a il suo essere nato sotto una buona stella – probabilmente coadiuvò la sua misteriosa guarigione (naturalmente, quale “effetto collaterale” della pratica stessa).
Tuttavia, il punto cruciale non era risolvere il nodo fisico, ma la sua consapevolezza, e non sempre il momento dello spezzarsi dell’incantesimo arriva. Soprattutto perché il ravvedimento di Paolo A. implicava l’accettazione di un prezzo che non sempre si è disposti a pagare: non solo rinunciare ad essere menomato, ma addirittura rinunciare a esserlo mai stato.
Molte altre volte, invece, non si esce dallo stallo.
Ogni giorno ho a che fare con praticanti di yoga convinti – a volte da parecchi anni – di non poter eseguire correttamente determinate posizioni a causa della conformazione del bacino o di altri difetti dell’apparato muscolo-scheletrico, martiri delle naturali asimmetrie del proprio corpo; di soffrire di blocchi psicosomatici e problemi respiratori la cui consapevolezza è ormai la causa stessa del problema; di non poter fare a meno di sostegni, mattonelle e tappeti antiscivolo senza i quali non sono in grado di sostenersi sui propri piedi, perché qui nasce anche un mercato di rimedi distribuiti (o meglio rivenduti) con enorme facilità anche ai sani: e, come direbbe Marco Invernizzi, se dài a una persona sana un bastone, dopo qualche tempo userà una stampella; poi due, poi un deambulatore, per finire in carrozzina.
Intendiamoci: tutti questi problemi esistono, a volte, anche come mere cause meccaniche. Ma in molti casi il problema non è tanto avere un problema: il problema è che qualcuno ti ha detto che hai un problema, e la sentenza è in sé stessa invalidante.
Spesso, infatti, la (sotto)cultura del “benessere” – anche perché è un mercato ormai di notevole importanza – tende a ridondare la percezione del difetto, e non del contenitore entro cui il problema va collocato e risolto. Non solo problemi con il corpo, ma anche problemi a non finire con i corpi celesti, il karma, l’anima e persino con parenti e affini di cui non sospettavamo l’esistenza. La logica, spiace dirlo, è quella che spesso i sostenitori di terapie alternative rimproverano alla medicina ufficiale: crea la percezione del problema, offri soluzioni che non curano alla radice, crea la dipendenza.
Allo stesso modo, sentirsi dire ogni giorno che il proprio corpo è un campo di battaglia che reca la memoria di tutte le carneficine che vi sono state perpetrate dall’alba dei tempi crea più problemi – e il peggiore è l’autocommiserazione – di quanti ne risolva.
Avendo per alcuni anni esercitato la nobile arte dell’agricoltura, da parte mia preferisco continuare a pensarlo come un campo fertile proprio perché la terra accoglie tutto e riassorbe a sé meticolosamente i cadaveri e il sangue sparso, facendone concime, terra fertile.
Naturalmente, occorre la volontà di rimuovere gli ostacoli e le sovrastrutture, non costruirne di nuove. E per questo occorre molto spesso scompaginare gli schemi inveterati della pratica stessa.
Che cosa fa allora lo Yoga? Lo Yoga, in realtà, non ha in sé nulla a che vedere con il raddrizzamento delle spine dorsali. Non ha nulla a che vedere con allineamenti e con schematiche simmetrie del corpo da ripristinare.
Lo Yoga spezza l’incantesimo.
Note
↑1 | Yoga Sutra, 4,3 |
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Stella dice
Articolo davvero molto interessante! E come contraltare a quel primo medico che aveva detto a Paolo di avere l’anca sbilenca si potrebbe raccontare l’aneddoto di quell’insegnante di yoga che disse a una vegana crudista che le ferite inferte a un corpo fruttariano si rimarginano più in fretta di quelle subite da un corpo onnivoro o anche solo vegano, ma non crudista… Il potere delle parole funziona anche in senso inverso: l’incantesimo si crea.
La chiave di tutto sta, come insegnava il Buddha, nell’Intenzione. Se ci rivolgiamo agli altri per aiutarli, ci riusciremo. Se vogliamo invece vendere tappetini, corde e mattonelle, ci riusciremo comunque. Ma non saremo mai felici se coloro che ci circondano soffrono – di malattie vere o immaginarie.
E dunque, per continuare la metafora agricola, coltiviamo la felicità altrui per coglierne noi i frutti!