La linea di confine tra l’Essere e in Non-essere impressiona e spaventa l’intelletto, perché su quel confine l’intelletto scompare. Questo limite è detto il Maha Yoga. (…)
Nisargadatta Maharaj
Tu devi stare su quel confine, quel limite che è detto Maha Yoga. Devi scoprire la profondità di quello stato che porta il nome di “nascita”.
Ciò che stupisce di Milo De Angelis – ed è il motivo per cui lo interpelliamo su queste pagine – è come attraverso lo scavo poetico abbia sondato la profondità di quel confine indicato dal suo amato Nisargadatta, soglia o ferita a seconda dei punti di osservazione, senza mai perdere lo stupore di chi apre gli occhi per la prima volta, e assumendosi tutti i rischi di constatare la finitezza dell’io di fronte all’ignoto. Certo, lo fa ‘laicamente’, e forse proprio per questo con inaudita autenticità.
Tra i più importanti poeti italiani degli ultimi cinquant’anni, milanese, insegnante in un carcere di massima sicurezza, profondamente radicato nella cultura greco-latina, da sempre affascinato – anche nella pratica – dal gesto atletico e dalle arti marziali: a queste eterogenee vene biografiche e poetiche nell’opera di Milo De Angelis si affianca il vasto orizzonte del pensiero indiano, grazie non solo a un appassionato studio, come emerge da tre capitoli del suo saggio appena ristampato Poesia e destino, ma soprattutto all’urgenza di confrontarsi con un mondo inconoscibile e non delimitabile dalle categorie del pensiero, l’advaita.
E sono proprio questi “contrasti magistrali” tra una Milano suburbana, la Grecia e l’India, che ci permetteranno di parlare assieme a lui senza soluzione di continuità di campi di atletica e di infinito, di Mahābhārata e di Leopardi, di arti marziali e di Dostoevskij. Ringraziandolo per l’estrema gentilezza e la disponibilità ad approfondire con noi questi temi (ringraziamo anche Viviana Nicodemo per la foto di copertina).
Contenuti
Intervista a Milo De Angelis
Che cos’è – o cosa è stata – l’India per Milo De Angelis, soprattutto in confronto-contrasto con altri due luoghi della sua poesia: Milano e la Grecia?
La Grecia, Milano e l’India costituiscono per la mia poesia una sorta di triangolo sacro, come quello di Pitagora. Ognuno dei tre lati percorre un determinato arco temporale: la Grecia è il passato remoto, Milano è il presente dei versi e l’India è il futuro dell’utopia, la creatura a cui tendo da sempre senza poterla raggiungere, il luogo del silenzio e dell’infinito, la sillaba in cui entra il mondo, come dice la Māṇḍūkya Upaniṣad. Non posso nemmeno immaginare la mancanza di uno dei lati. La Grecia e il suo universo regolare e circoscritto si spalanca negli abissi indiani. E dentro il terzo lato – ossia dentro l’archetipo della città – confluiscono il dramma inquieto e singolare della civiltà ellenica e il soffio cosmico di quella vedica.
Ricorre l’idea – e non solo nel pensiero indiano – che l’essenziale non possa essere espresso a parole. Qual è il rapporto tra la poesia e ciò che non può essere detto? (Nota: questa domanda mi è venuta in mente leggendo le riflessioni sull’andare a capo: “(…) una spaccatura improvvisa, incatenata a quella storia e al tempo stesso ignara di essa (…)”).1Milo De Angelis, Poesia e destino, Crocetti, 2019
Hai toccato un punto cruciale. Se l’India costituisce un luogo di infinita attrazione e al tempo stesso di infinita distanza, è proprio per la questione della parola, che in molti pensatori orientali viene svalutata o addirittura sentita come un ostacolo nel cammino verso la verità. Per me naturalmente è impensabile un universo separato dal suo alfabeto e questo lo dico in quanto poeta ma anche in quanto allievo di Lacan e del suo perentorio rifiuto di credere a una realtà non verbale, come afferma il suo celebre aforisma che definisce ciascuno di noi “un effetto del linguaggio”. Devo dire comunque che ci sono eccezioni e differenze tra le varie Upaniṣad e che i miei maestri indiani più importanti sono creature appassionate alla parola nelle sue varie forme: tagliente e affilatissima in Nisargadatta, poetica e fiabesca in Krishnanurti.
“Adesso quello che ho vissuto diventa/imprevedibile come quello che vivrò”. Vorrei che ci parlassi del tempo, che nella tua poesia è tutt’altro che addomesticabile a un principio lineare.
I versi che hai citato sono tra quelli che sento più biografici. Nella mia esistenza, da sempre, il passato ha avuto la violenza di una valanga che precipita nel tempo attuale, lo travolge e lo sconvolge. Tutto è così remoto da diventare imminente. Tutto è così perduto da accadere tra un istante. I tempi nella mia poesia e nelle mie giornate si intrecciano e si feriscono continuamente, ed è la violenza di questo impatto a farmi paura: passato prossimo che si fa remoto e poi trapassato e poi infinito presente, con urti, sangue e ferimenti di un tempo contro l’altro, un gioco al massacro. E oltre a questo c’è il sentimento dell’eterno. Non in senso cristiano, cioè pacificato, ma in un senso vicino a Leopardi, ateo e attonito, solitario e sbigottito di fronte alla distesa degli astri. Questo mi allontana dal mondo greco-latino e dalla sua fisica tendente alla misura, dal suo horror infiniti. E mi avvicina ancora una volta all’Oriente, che sull’eternità ha fatto precipitare la forza della sua speculazione e dei suoi miti. Ricorderò sempre le parole del Mahābhārata: “Tu mi chiedi cosa è l’eternità? Mi chiedi di farti capire la sua potenza e la sua durata? Ebbene, sappi che al di là delle ultime montagne c’è una grande pianura e in questa pianura c’è un cubo di granito di mille chilometri per lato e ogni mille anni giunge un uccellino che dà un colpo di becco a questo cubo. Ecco, quando tutto il cubo verrà disfatto, allora sarà passato un giorno dell’eternità”.
Cosa hanno significato per te Nisargadatta Maharaj e Jiddu Krishnamurti?
Nisargadatta Maharaj ha rappresentato per me l’impossibile. Mi ha costretto a un’impresa superiore alle mie forze ma entusiasmante, mi ha portato a misurarmi con un’altissima forma di pensiero: questo sapiente di Bombay, questo umile tabaccaio illuminato compie una scalata formidabile e arriva al culmine dell’advaita-vedanta, monismo assoluto e senza concessioni, così assoluto da far impallidire Berkeley, Spinoza o qualunque forma di panteismo di nostra conoscenza. Comprendere il suo messaggio e la sua invulnerabile certezza è una sfida suprema per chiunque si sia formato sul pensiero greco-latino. E così è stato per me quando l’ho letto per la prima volta nel 1981, sfogliando le pagine limpide e al tempo stesso misteriose di Io sono Quello, che il benemerito Elémire Zolla ha fatto pubblicare in Italia2Nisargadatta Maharaj, Io sono quello, Rizzoli, 1981. in un periodo difficile, quando parlare di queste visioni “esoteriche” era severamente proibito dall’ideologia corrente. Quanto a Jiddu Krishnamurti, ho voluto conoscerlo di persona insieme a uno dei suoi maggiori studiosi italiani – Giovanni Turchi delle edizioni Aequilibrium – dopo avere letto La sola rivoluzione, il suo libro più poetico.3Jiddu Krishnamurti, La sola rivoluzione, Astrolabio-Ubaldini, 1973. E ho incontrato a Saanen un uomo cristallino e identico alle sue parole, capace di slanci lirici e di adesioni sensitive alle cose del mondo, specialmente nei suoi libri “monodici” (più che nei dialoghi, spesso trascritti da altri) come quello che ho citato poco fa; e in seguito, negli anni ottanta, Taccuino e Diario.
Il gesto atletico, le arti marziali, l’haṭhayoga: sono tre vie che utilizzano il corpo e che, almeno nei primi due casi, sono una presenza costante nella tua poesia. Ritieni che siano mondi inconciliabili? Penso ad esempio a “Ecco l’acrobata della notte” dove l’atleta al tempo stesso è presentato come un asceta.
Tutt’altro che inconciliabili. C’è nella mia visione del gesto atletico un aspetto agonistico e battagliero, impegnato in una sfida con l’altro, ma c’è anche l’aspetto ascetico che tu hai detto, la solitudine e lo scavo interiore attraverso lo scavo nel corpo, come quando il funambolo amico di Zarathustra entra in uno stato di trance fuori dal tempo, dove tutto è corporeo e insieme immateriale, fisico e insieme impermanente. E l’acrobata della notte racconta questa sospensione del flusso cronologico, come le grandi figure nietzschiane del danzatore e dell’equilibrista sospeso nel vuoto.
Mi ha colpito molto, ma non sorpreso, che in Poesia e destino tu abbia visto l’India nel Principe Myskin. Puoi parlarcene?
Il Principe Myskin è un uomo interamente puro, incapace di calcolo o doppiezza, portato a comprendere le verità di chi gli parla anche quando sono sepolte in una grotta profonda. Ed è un uomo capace di sorprendersi più di ogni altro, di rimanere incantato per il movimento minimo di una foglia o di un cuore umano. Questo fa di Myskin un maestro vicino all’Oriente, ossia un uomo che accoglie l’infinita varietà del mondo flettendosi come un giunco e non opponendosi frontalmente all’impatto, come insegnano le arti marziali. E tale maestria lo rende nel medesimo tempo uno Specchio dell’altro, una creatura dove ognuno di noi trova l’immagine di se stesso di fronte ai propri occhi, come intuisce Rogožin quando gli parla del suo amore folle per Nastasja Filippovna e con lui – e soltanto con lui – accetta di vegliare il suo corpo per una notte intera.
“L’infinito appare nel poco/come l’ultima nota di un grido/che si dilegua”. Forse è un po’ azzardato, ma questi versi, oltre a essere bellissimi in sé, mi sono sembrati una sorta di maturazione di quella che probabilmente è la tua chiusa più celebre: “In noi giungerà l’universo,/quel silenzio frontale dove eravamo/già stati”. Cosa ne pensi?
C’è un sotterraneo legame tra i versi di Millimetri e i versi che hai citato. In un lungo dialogo sul tema del silenzio 4Il Silenzio. Milo De Angelis intervistato da Corrado Benigni. “Doppiozero”, 21 marzo 2020. https://www.doppiozero.com/materiali/il-silenzio-intervista-con-milo-de-angelis. ho raccontato che i primi nacquero vicino a un campo di atletica dove andavo ad allenarmi per i campionati regionali. Restavo sempre colpito, guardando gli atleti del salto in alto, da quei pochi centimetri tra il corpo e l’asticella che sancivano la riuscita del loro gesto, quella minima striscia di luce che portava la buona novella del salto riuscito. Ed ecco che l’infinito si profilava già allora in un luogo piccolissimo, una manciata di atomi e di istanti, come se l’intero universo convergesse in quella fettina di spazio e la riempisse di un significato favoloso. D’altra parte è proprio della poesia dire qualcosa di immenso con un pugno di parole, concentrandole fino al loro nucleo essenziale, riunendo in una sola frase mille esperienze e mille incontri e trasformando così quella lieve entità in un tempo originario, il tempo in cui eravamo già stati.
Il tuo prossimo libro si intitola “Linea intera, linea spezzata”, puoi dirci qualcosa a riguardo (e qualcosa sul titolo)?
Dirò innanzitutto che il titolo ha un legame con l’Oriente e si riferisce all’antica sapienza cinese dell’I Ching, il Libro dei Mutamenti, dove la figura divinatoria a noi destinata risulta da un insieme di tre linee, che possono essere intere o spezzate. Detto questo, il titolo dovrebbe poi camminare per conto suo (almeno spero) e portare con sé altre immagini, altre allusioni e altri significati, con tutto il campo simbolico percorso da un aggettivo come “intero” e da un aggettivo come “spezzato”, tanto che l’ultima sezione è dedicata alla linea interrotta di coloro che si sono tolti la vita ed è un lungo viaggio nel girone terreno e ultraterreno dei suicidi, con incontri a volte drammatici e a volte sorprendenti, portatori di verità sconosciute.
Nota bio-bibliografica
Milo De Angelis è nato nel 1951 a Milano e ha pubblicato le seguenti raccolte di poesie: Somiglianze (Guanda, 1976); Millimetri (Einaudi, 1983, ristampato da Il Saggiatore nel 2013); Terra del viso (Mondadori, 1985); Distante un padre (Mondadori, 1989); Biografia sommaria (Mondadori, 1999); Tema dell’addio (Mondadori, 2005); Quell’andarsene nel buio dei cortili (Mondadori, 2010) e Incontri e agguati (Mondadori, 2015). Ha scritto un racconto fantastico (La corsa dei mantelli, Guanda, 1979, ristampato da Marcos y Marcos nel 2011) e un volume di saggi (Poesia e destino, Cappelli, 1982, ristampato da Crocetti nel 2019). Nel 2017 tutte le sue poesie sono state raccolte in un unico volume con l’aggiunta di una sezione di poesie giovanili inedite (Tutte le poesie 1969-2015, Mondadori, 2017).
Il suo prossimo libro, Linea intera, linea spezzata, è previsto per la fine di quest’anno.
Note
↑1 | Milo De Angelis, Poesia e destino, Crocetti, 2019 |
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↑2 | Nisargadatta Maharaj, Io sono quello, Rizzoli, 1981. |
↑3 | Jiddu Krishnamurti, La sola rivoluzione, Astrolabio-Ubaldini, 1973. |
↑4 | Il Silenzio. Milo De Angelis intervistato da Corrado Benigni. “Doppiozero”, 21 marzo 2020. https://www.doppiozero.com/materiali/il-silenzio-intervista-con-milo-de-angelis. |
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