Può sembrare strano che in molte religioni, non solo orientali, il divino si presenti spesso in veste terrifica e distruttrice.
Di Dio siamo abituati a considerare l’aspetto creativo. A lui ci rivolgiamo per chiedergli di preservare ciò che esiste e con lui ce la prendiamo per i terremoti o se un bambino muore. Tuttavia, siamo riluttanti a prendere seriamente in considerazione il divino come forma radicale di libertà da ogni cristallizzazione, perché la libertà implica conseguenze non prevedibili e non negoziabili per l’esistente.
Questa riluttanza affligge a maggior ragione chi si considera su di un percorso cosiddetto “spirituale” o di “ricerca interiore”, termini che in realtà ci imprigionano in strutture mentali rassicuranti e ben più dure da intaccare di tante convinzioni dell’uomo comune.
Le scuole di Yoga e i centri olistici si trasformano troppo spesso in dormitori dove ci si reca con la propria copertina (in senso lato ma anche letterale) per schiacciare il pisolino e poi tornare a casa. Il fatto è che se realmente le pratiche che vi si svolgono fungessero a qualcosa, anche solo per l’eco lontana che ne portano, la copertina dovrebbe prendere fuoco e la casa crollare.
Prima o poi la vita provvede da sola, e spesso senza molti riguardi, a ripristinare il senso di realtà. Ma se vogliamo avere l’occasione di prendere atto di questa evidenza, allora è necessario avere molto coraggio.
Il Coraggio come Attitudine
Coraggio: forza d’animo nel sopportare con serenità e rassegnazione dolori fisici o morali, nell’affrontare con decisione un pericolo, nel dire o fare cosa che importi rischio o sacrificio.
Dizionario Treccani
Non veniamo mai, se non in rarissimi casi, spronati a mostrare coraggio nella nostra vita né ad abituarci a considerarlo un requisito imprescindibile della nostra personalità. Il coraggio infatti rimane spesso una dote da mostrare in occasioni eccezionali, mentre come attitudine di vita può destare non pochi sospetti di sconsideratezza.
Invece, tutta una vasta gamma di altri sentimenti sono giudicati molto più politically correct e compatibili con la visione di vita “tranquilla”, intesa come assenza di perturbazioni e cambiamenti, che viene esaltata nella nostra società in ogni suo aspetto: pensare al futuro, essere previdenti, consolidare la propria posizione. Peccato che il futuro, così inteso, sia la condanna a vivere sotto l’anestesia del passato.
Ma perché bisogna essere per forza “tranquilli”? Cosa c’è di sbagliato nel provare ogni tanto un sentimento che ci porta a compiere delle azioni che normalmente non compiremmo? E quindi, da un punto di vista più profondo, a mettere in discussione aspetti della nostra vita che altrimenti, assonnati e anestetizzati come solitamente siamo, difficilmente decideremmo di mettere in discussione?
Penso che tutto parta da una mancaza di educazione al coraggio, che forse è più corretto definire “attitudine” che sentimento. Penso inoltre che spesso il coraggio venga confuso con il compiere azioni esagerate e pericolose incuranti della paura che esse generano.
Un po’ come gli stunt man o i cultori di sport estremi che, per il gusto dell’adrenalina che esso genera, compiono le azioni più pericolose ed estreme, mettendo in luce la parte più spettacolare del coraggio, tralasciando tuttavia forse quella più profonda.
Ma il coraggio di cui stiamo parlando non si abbina necessariamente ad azioni mirabolanti o inconsulte. Il coraggio che intendiamo è la capacità di compiere un’azione, anche la più semplice e banale, nonostante la consapevolezza che la sua messa in atto provocherà in noi (e a volte non solo in noi) dei cambiamenti e delle sofferenze necessarie a sovvertire un determinato status quo.
E, cosa più importante, senza essere mai esattamente sicuri di tutte le conseguenze e possibilità che tali azioni determineranno, lasciando quindi un certo margine di indeterminazione su cosa verrà dopo.
Non mi stupisce che non si pensi neanche lontanamente ad educare un bambino ad un simile modo di porsi nei confronti della vita. Se così fosse infatti difficilmente crescerebbe mansueto e controllabile e soprattutto una vita pre-impostata da efficiente “generatore di tranquillità” gli suonerebbe da subito profondamente stonata.
Che scenari divertenti si prospetterebbero all’orizzonte se non solo singoli individui ma addirittura una massa critica fosse educata ad agire consapevolmente trovandosi a proprio agio con l’attitudine al cambiamento e il conseguente adattamento che esso impone alle singole esistenze. Ma, ahimè, questo avviene solo in casi molto rari.
Coraggio e Cambiamento
Ma quindi il coraggio da solo basta a cambiare il nostro approccio alla vita? Secondo me no. Diciamo che è paragonabile alla scintilla che mette in moto tutto il meccanismo legato al cambiamento.
È la molla che ci spinge a porci nei confronti della vita e della realtà nel modo più oggettivo, adattabile e fluido possibile, senza cercare in maniera utopistica e arrogante di interpretarla e adattarla alla piccolezza dei nostri paradigmi autocostruiti, ma appunto lasciandosi attraversare da essa, senza opporre resistenza, quasi come a lasciarsi trasportare dalla corrente di un fiume senza alcun bisogno di nuotare.
L’essere umano ha una spiccata propensione a generare delle safe-zones rassicuranti e statiche in cui ingabbiarsi nell’illusione di una vita tranquilla e felice. Al contrario, come un fiume in piena, la realtà, per essere almeno intuita, impone di abbandonare qualunque filtro, pre-concetto o dogma, arrivando quasi a “spalmarsi” su di essa, dissolvendosi nel suo fiume in piena. Che ciò avvenga per progressione o istantaneamente è solo una questione di prospettiva.
Penso che soltanto quando si è pronti a mettere in discussione ciò in cui si crede fermamente e attorno a cui riteniamo erroneamente che ruotino le nostre vite e solo quando si è confidenti con la propensione interiore al cambiamento, ebbene solo in quel momento si inizia ad acquisire la capacità di modificare profondamente qualcosa nella nostra vita. Vita intesa nella sua interezza, senza distinzioni tra Interiore ed Esteriore, che trovo al contrario sterili e fuorvianti.
Cambiare… Distruggere
Penso che vivere in questo modo richieda un grande coraggio, è non è un semplice gioco di parole. Continuare a mettere in discussione le idee preconcette e gli schemi di comportamento che abbiamo creato (o che ci sono stati imposti) fin dall’infanzia per interpretare a modo nostro la realtà è un qualcosa che provoca necessariamente anche dolore e sofferenza.
Ma, parafrasando le parole di Krishna nel Mahabharata (su cui torneremo più avanti), la scelta potrebbe non essere tra guerra e pace, ma tra la guerra e una guerra ancora più catastrofica. Per questo già solo iniziare a porsi nei confronti delle sicurezze in maniera critica implica a mio parere un coraggio fuori dalla norma.[irp posts=”1168″ name=”Il mondo è un recipiente sacro e non si può governare, ma anche sì”]
Il paradosso, è che proprio queste sicurezze sono artifici creati per proteggerci dalla sofferenza e da quell’ignoto a cui il cambiamento ci espone. Col tempo, la fitta rete di sicurezze crea una distorsione a tratti incolmabile tra la realtà percepita attraverso di loro e la realtà cosiddetta “reale”: evitiamo la sofferenza accettando un’altra sofferenza, più sorda, più mansueta, ma di cui prima o poi la vita ci renderà il conto.
E qui penso sia doveroso fare un’altra precisazione. A mio parere infatti, il cambiamento e l’abitudine alla sensazione di impermanenza che accompagna questa dinamica sono senza dubbio un ottimo punto d’inizio. La differenza però penso la si faccia davvero solo quando si comincia a passare dal concetto di cambiare a quello di distruggere. Ma perché proprio distruggere?
Oltre al differente livello di impegno attivo e consapevolezza che le due azioni sottendono, indubbiamente il concetto di distruzione genera una forte impronta emotiva nel nostro interiore.
Infatti ho notato come si tenda spesso ad associarlo esclusivamente ai suoi aspetti più negativi, devastanti e irreversibili e a concetti poco amati dai più come la morte e la sofferenza.
In realtà, anche nelle culture più antiche, si trova sempre la presenza di un principio divino distruttore, pari grado se non a volte anche comprendente l’aspetto creativo, proprio perché, in maniera estremamente semplicistica, per creare il “nuovo” è necessario prima distruggere il “vecchio”.
Quello che manca nella visione odierna forse è proprio questo aspetto della distruzione. Cioè il fatto che la distruzione non implica esclusivamente la fine irreversibile di qualcosa, nonostante possa essere tremenda e devastante, ma che contempla anche un contemporaneo aspetto creativo dinamico.
Ne risulta quindi un concetto apparentemente contraddittorio, una sorta di distruzione creativa in cui non necessariamente tutto è proprio da buttare nel termovalorizzatore, ma in realtà serve, dopo una elaborazione, una sgrezzatura e una sublimazione a produrre quel “nuovo” che sicuramente è diverso dal “vecchio” ma al contempo conserva qualche caratteristica anche di quest’ultimo.
Proprio perché niente è a priori esclusivamente positivo o negativo. Per capirci meglio è un meccanismo riconducibile alla trasmutazione alchemica, presente in numerose Tradizioni sia Orientali che Occidentali e di cui abbiamo parlato già qui e qui.
E appunto coraggio, cambiamento e distruzione si fondono in un legame indissolubile dove, partendo dalla scintilla che genera il movimento (coraggio), si giunge alla dinamicità (cambiamento) che inevitabilmente porterà alla distruzione, indispensabile per la creazione del “nuovo”.
E nella pratica?
Quanto detto finora potrebbe sembrare il solito discorso sui massimi sistemi, più o meno condivisibile a seconda del vissuto e degli interessi del singolo lettore, ma poi facilmente accantonabile tra le tante teorie sull’approcciarsi alla vita.
Teorie che spesso ad una prima lettura risultano accattivanti e capaci di rispondere con semplicità alla maggior parte dei nostri quesiti ma che in seguito si rivelano totalmente inapplicabili alla quotidianità. O peggio ancora essere completamente fraintese, confuse cioè con il concetto profondamente fuorviante che la distruzione indiscriminata di tutto ciò che capita sottomano sia una scorciatoia per raggiungere chissà quali traguardi esistenziali.
D’altro canto, quanto detto finora non riguarda solamente scelte eccezionali che un normale individuo compie poche volte nella propria vita, in occasione di importanti passaggi evolutivi legati alla propria storia esistenziale. Niente di più sbagliato. Come detto prima riguardo al coraggio e alla sua “non eccezionalità”, così quanto esposto in precedenza sul cambiamento e sulla distruzione può essere applicato a qualunque momento della nostra vita.[irp posts=”4053″ name=”Marpa, Milarepa, la grandine e le ortiche: viaggio in un Tibet dimenticato”]
Anzi, occorre dare lo stesso peso a cambiamenti con impatti sulla vita quotidiana enormemente diversi, per rendere l’attitudine al cambiamento (e alla distruzione) intrinseca al proprio modo di approcciarsi alla vita.
Come se tutta la vita in fondo, dal gesto più semplice a quello più profondo, fosse un unico susseguirsi di distruzioni e di creazioni in cui il prodotto che via via viene elaborato e raffinato siamo proprio noi stessi. Quindi mettere ogni scelta e il cambiamento conseguente sullo stesso piano significa a mio parere smussare fino ad eliminare completamente l’eccezionalità che aleggia intorno a tutto il processo.
Un altro errore a mio parere molto comune è ritenere che solo chi segue determinati percorsi o pratichi determinate discipline abbia un lasciapassare privilegiato verso determinati modi di approcciarsi alla vita come quanto descritto in precedenza.
Tuttavia, come già affrontato in diversi articoli, questi percorsi non sono del tutto scevri da trappole e ostacoli di percorso che nel lungo possono non solo vanificare tutto il lavoro fatto, ma anche essere controproducenti.
Ritengo inoltre che un altro ingrediente indispensabile sia coltivare quello stato di centratura, attenzione e “ascolto”, indispensabile a cogliere la continua mutevolezza della realtà e gestire il nostro rapportarsi con essa.
In caso contrario, risulta impossibile applicare quanto descritto finora e anzi, il tutto si traduce in un meccanico, vuoto e superficiale tentativo di utilizzo di questi processi, risultando nel lungo più controproducenti che altro.
Da due anni, su questo sito, vengono proposte opinioni, spunti e articoli riguardo allo studio di Vie, Pratiche e Tradizioni volte proprio a coltivare questo stato di attenzione e di “presenza”, anche e soprattutto cercando di demolire i luoghi comuni, i quali non sono altro che cristallizzazioni di attitudini in origini vive e genuine, ma che si sono trasformate in altrettanti dogmi.
Abbiamo quindi tutti gli ingredienti? Purtroppo ancora no. L’ultimo ingrediente infatti, e sicuramente più importante, penso sia la motivazione profonda che muove tutti i processi descritti finora.
Non necessariamente deve essere chiara da subito. Ma sicuramente senza di quella, e la volontà che da essa scaturisce, difficilmente si riuscirà a mettere in moto seriamente qualunque dinamica descritta in precedenza.
Occorre la volontà di trascendere la realtà come la percepiamo per raggiungere qualcosa che sta al di là non solo della nostra capacità percettiva ma anche della nostra consapevolezza.
Ma più che capire, occorre sentire.
E ciò che eventualmente si “sente” appartiene ad una sfera talmente intima e profonda da essere una modalità unica e irripetibile per ogni singolo individuo, a conferma appunto dell’unicità di ogni singolo essere.
Di più non vorrei aggiungere se non che questa capacità di sentire non può a mio parere essere regolamentata, istituzionalizzata né tantomeno mediata. O c’è o non c è. E se non c’è, molto probabilmente sta semplicemente aspettando il momento più opportuno per farlo.
Non necessariamente questo capacità di sentire sarà propiziata attraverso pratiche psicocorporee estrose, vite ascetiche himalayane o rituali folkloristici. Tuttavia, senza di essa, quanto detto finora perde gran parte della sua forza e applicabilità. Come un motore che va su di giri ma non viene mai inserita una marcia (anche soltanto la prima) che permetta effettivamente di iniziare a muoversi.
Perché Distruggere?
Ma non si può vivere una vita “tranquilla”? Sì, certamente, è possibile. Sono fermamente convinto che il libero arbitrio e la libertà che ne consegue siano la massima espressione di amore concepibile.
Tuttavia, se stiamo cercando risposte a quesiti profondi o se stiamo facendo un “lavoro su noi stessi”, ritengo che non possa mancare una altrettanto sincera e assoluta attitudine alla messa in discussione di se stessi, delle proprie idee e convinzioni e soprattutto una propensione al cambiamento e alla distruzione. Ma c’è dell’altro. Esiste a mio parere una sottile affinità tra cambiamento e il concetto generale di “agire”. E più in particolare, di “agire consapevolmente”.
Niente rimane mai fermo, anche se si è convinti secondo i propri riferimenti sensoriali e spazio temporali di essere fermi: e spesso, in realtà, ci stiamo muovendo molto più velocemente di quanto pensiamo. Pertanto l’immobilità, l’inazione e la conservazione dello status quo sono caratteristiche aliene dalla vera natura della realtà che ci contiene, siccome essa stessa è un continuo susseguirsi di creazioni e distruzioni.
L’idea quindi che sia possibile “fermare” una qualunque situazione o “non agire” è solo frutto dell’illusione e dei “filtri” che la alimentano illudendoci appunto di poter stare fermi indipendentemente da ciò che invece si muove e muta continuamente intorno a noi.
A questo proposito, penso possa aiutare un bellissimo estratto dalla versione del Mahabharata di Peter Brook, su cui si è svolta recentemente a Zénon una conferenza con Carola Benedetto e Luciana Ciliento. In quell’occasione non poteva mancare un approfondimento della scena in cui l’eroe Arjuna sta per soffiare nella conchiglia e dare il via alla terribile battaglia che lo vedrà scontrarsi con i suoi stessi parenti, ovvero l’episodio che rappresenta la Bhagavad Gita, cuore del Mahabharata stesso e testo sapienziale di enorme importanza.
Quando Arjuna vede schierati davanti a sé lo zio, i suoi cugini e il suo amato maestro d’armi, si sente annientato e abbandonando arco e frecce si rifiuta di combattere. Si rivolge al suo auriga Krishna (che è in realtà il dio Vishnu in forma umana) e gli chiede: perché dobbiamo combattere? Perché dobbiamo agire, pur sapendo di non poter evitare terribili conseguenze? Non è meglio allora rinunciare all’azione?
Krishna gli risponde che è impossibile evitare di agire. E di seguito le sue parole penso illuminino con estrema chiarezza il senso di quanto detto finora…
https://www.youtube.com/watch?v=_B4Z1PB97KY
Da notare che Vishnu/Krishna non è legato tradizionalmente all’aspetto distruttivo, che è proprio di Shiva, ma alla conservazione (la trimurti è completata da Bhrama, il creatore). Questo è un particolare molto interessante, che nella versione di Peter Brook emerge in tutto il suo apparente paradosso: Vishnu ‘discende’ in forma umana ogni qual volta l’ordine cosmico (il dharma) sia a repentaglio, durante i tumulti che accompagnano ogni passaggio epocale come quello raccontato nel Mahabharata.
Ci si potrebbe quindi aspettare che Krishna agisca da pacificatore, e invece è proprio lui che appicca il fuoco, portando all’esasperazione i conflitti tra i cugini Kaurava e Pandava: a volte è necessario distruggere per conservare, mentre cercare di conservare gli equilibri formali è la forma più nichilista di distruzione.
Vivere Distruggendo
Ovviamente vivere in questo modo non è affatto semplice e non permette di “sedersi”. Il continuo processo di distruzione e di creazione ci sottopone a una progressione non lineare ma spiraliforme, una sorta di raffinazione continua di un minerale per ottenere un metallo sempre più puro.
Mettere in pratica veramente questi principi implica una scelta consapevole che spesso può avere degli effetti esplosivi (sia in positivo che in negativo) sulla vita anche ordinaria di un individuo. Vivere senza alcuna certezza o appiglio, travolti da questo continuo dinamismo, alla lunga può logorare se si conserva una resistenza profonda a questo meccanismo, come se venisse accettato soltanto in superficie ma negli abissi dell’interiore venisse al contrario ostacolato.
In realtà il segreto per non “bruciarsi col fuoco” non è tanto accettare la resistenza in maniera passiva o fingere che non esista. Né ricrearsi delle piccole valvole di sfogo per quei momenti in cui proprio non ce la si fa più.
Farsi attraversare dalla realtà e “spalmarsi” su di essa vuol dire arrivare ad un certo punto a dissolvere la propria forma. Tuttavia la dissoluzione non implica un annullamento, ma la capacità di assecondare la mutevolezza della situazione senza tuttavia perdere la propria natura originaria. Ancora una volta, distruzione e conservazione: la fedeltà a sé stessi implica apparenti incoerenze esterne verso le forme cristallizzate.
[irp posts=”4572″ name=”Meditazioni per non uscire dal mondo”]Solo in questo modo è possibile generare la minima resistenza al cambiamento e non venirne sopraffatti e infine annientati.
Sicuramente un effetto collaterale insormontabile (o almeno credo) è il senso di una profonda solitudine, che tuttavia è tale solo se si conserva una visione ancora parziale.
E c’è anche, certo, il rischio di essere considerati folli. Ma non esiste forse in tutte le Tradizioni la stretta vicinanza tra il concetto di follia e quello di divino, proprio a dimostrare come uno stato di fusione completa con ciò che ci circonda sia percepibile dall’esterno come appunto follia? E di personaggi che hanno sperimentato questi stati non ne troviamo descritti in ogni Tradizione e luogo della Terra? E forse, per arrivare anche solo a sfiorare per un istante la Verità, non bisogna essere dei folli?
Tantra
Coraggio, cambiamento, distruzione, trasmutazione: è inevitabile cogliere come comune denominatore di questi aspetti un termine a me molto caro, che in sé racchiude un mondo, ovvero il Tantra. Raramente riguardo a un singolo termine sono esistite così tante imprecisioni e fraintendimenti. Soprattutto nel mondo Occidentale.
Lasciamo pure perdere l’abnorme e sintomatica identificazione con gli aspetti legati alla sessualità, che hanno generato interpretazioni che rivelano tutte le problematiche profonde nell’affrontare l’argomento: da un lato il sogno della disinibizione assoluta di una pulsione con cui non si riesce a interfacciarsi serenamente; dall’altro il tentativo di commercializzare il tantra come forma di counseling per coppie afflitte da calo di desiderio.
Ma anche mettendo da parte questo, il tantra spesso si risolve in tentativi vani di concettualizzare e categorizzare qualcosa che appunto per sua natura è pura esperienza e quindi non concettualizzabile né tantomeno trasmissibile a parole.
Religione, Filosofia, Via, stile di vita. Nessuna di queste definizioni mi ha mai convinto pienamente. Impossibile da inquadrare cronologicamente, unico nelle sue modalità, se obbligato e controvoglia dovessi provare a definirlo, lo intenderei come una Scienza Interiore, altamente evoluta, capace di permettere il completo controllo della mente e dei suoi processi. Ma ancora risulterei estremamente impreciso e carente… Il Tantra va vissuto. Anzi, forse è l’unica strada secondo il mio modesto parere, per Vivere veramente, nel senso più profondo e completo la nostra esistenza.
Anche se questo ovviamente richiede un grande coraggio.
Ringrazio Francesco Vignotto per la scelta iconografica e per la revisione del testo
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