Uddiyana bandha, grazie al suo potenziale riabilitativo e con il nome di vuoto addominale o ginnastica ipopressiva, si sta diffondendo anche fuori dallo Yoga una delle sue pratiche più peculiari, in cui però è difficile separare la componente corporale da quella psichica. Ecco perché, anche praticato come gesto atletico, Uddiyana bandha non può essere soltanto un gesto atletico.
Che lo Yoga sia spesso ridotto a ‘mero esercizio fisico’ è il cruccio di molti che a questa disciplina hanno dedicato anni di pratica e studio. Il rapporto tra lo yoga moderno e la cultura fisica, compreso il body building, è del resto molto complesso e non liquidabile con giudizi tranchant, anche se a volte vengono meno alcuni capisaldi senza i quali non sarebbe onesto utilizzare l’etichetta di yoga (ad esempio, quando si trasforma la pratica degli asana in esercizio aerobico).
Eppure dobbiamo constatare che, d’altro canto, a volte anche nel fitness penetra qualche principio – non la mera forma – dello Yoga, seppur con tutti i ma e i però del caso e sebbene ovviamente in maniera limitata alla pratica corporea. Ma possiamo negare che uno spiraglio non equivalga a una breccia, per il solo fatto di essersi dimostrato possibile?
Un esempio è la davvero impressionante quantità di contenuti in rete che riguardano il vuoto addominale (detto anche vacuum o ipopressivo), sia come esercizio per il recupero nel post parto, sia come alternativa nel fitness ai classici addominali e come stabilizzazione del core.
Va da sé che, al di là dei vari cappelli con cui viene di volta in volta presentata (chi non ha inventato un metodo, al giorno d’oggi?), non si faticherà a riconoscere in questa pratica una delle tecniche più iconiche dello Yoga, tecnica che, peraltro, a differenza di molti asana popolari, è attestata almeno fin dal Medio Evo nei testi dello hathayoga, che prescrivono di “tirare indietro l’addome e l’ombelico verso l’alto”, aggiungendo che questa pratica “è come un leone vittorioso sull’elefante della morte”.1Svatmarama, Hathapradipika, III, 57
Sebbene qualcuno abbia ravvisato un antecedente nelle pose dei culturisti degli anni ’50-’60, tra cui era uso comune utilizzare il vuoto addominale per sembrare più snelli in vita e più eminenti di torace, è davvero difficile negare che l’influenza culturale dello Yoga e le immagini di praticanti famosi (come non ricordare Umberto Pellizzari?) siano stati di ispirazione a questa tecnica, anche se, dispiace dirlo, raramente viene ammesso.
Stiamo parlando, naturalmente, di Uddiyana Bandha. Uddiyana significa “volare verso l’alto” (così come l’ombelico che viene risucchiato dal diaframma) e Bandha “blocco, chiusura, legame”. Nel contesto originale, Uddiyana è in relazione ad almeno altri due ‘bandha’, relativi al perineo (Mula) e alla glottide (Jalandhara) e si tratta di una pratica legata al controllo del respiro e del Prana, oltre che, come vedremo, alla stabilizzazione della colonna vertebrale.
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Ma Uddiyana non è un comune esercizio…
Come mai, anche al netto dell’aspetto pranico, che comprensibilmente in ambito fitness non viene calcolato, trasporre Uddiyana Bandha nelle palestre non è esattamente come prendere a prestito un asana o una sequenza?
La risposta è che Uddiyana, anche se è il più visibile dei tre Bandha, non comporta un gesto esteriore come flettere il tronco o allungare gli ischio-crurali, bensì richiede il controllo della muscolatura profonda, per di più in assenza di respiro e in modalità semi-passiva. Il che, oltre a essere piuttosto stravagante nell’ambito del fitness, significa che per per la sua esecuzione non è sufficiente imitare semplicemente una posa, ma occorre arrivarci, perlomeno all’inizio, attraverso delle manovre indirette, imparando a trasferire l’attenzione dall’esterno alle modificazioni viscerali dell’addome e del torace.
Fa piacere dunque constatare che il mondo del fitness stia scoprendo che non esiste solo la contrazione, ma che vi è un modo alternativo e più sottile di utilizzare il proprio corpo, e in cui è molto importante saper dosare e localizzare azione e rilassamento.
Ovviamente, come evidenzieremo più avanti, vi sono anche dei limiti e dei dubbi riguardo alla trasposizione meccanica di una tecnica che ha vaste ripercussioni sulla sfera pneumatica e psichica, soprattutto perché si dà per scontato che sia possibile delimitare effetti di cui non si conosce la portata con una semplice dichiarazione di intenti (se lo faccio solo come esercizio, rimane per questo solo un esercizio? È lo stesso paradosso della Mindfulness: se mi affaccio sul vuoto solo per calmarmi, il vuoto per questo non si affaccerà su di me?).
Esiste del resto una continuità fasciale nelle strutture coinvolte nel vuoto addominale (oltre alle connessioni onnidirezionali dell’ombelico), ravvisabile nella Linea Frontale Profonda individuata da Myers, una fascia molto interna che non a caso comprende elementi strettamente connessi sia alla pratica dello Yoga (elevatore dell’ano, psoas, diaframma, pleura, pericardio per citarne solo alcuni), sia alla traduzione fisica delle reazioni emotive e dei traumi: quanto basterebbe perché l’argomento trovi sede più consona nell’ambito di una pratica psico-corporea, invece che solamente corporea.
Tuttavia, è molto interessante comprendere nello specifico perché un mondo per alcuni versi così distante come quello del fitness abbia rivolto la sua attenzione a una pratica in apparenza così aliena come Uddiyana, e questo ci farà comprendere qualcosa di più sia del suo funzionamento, sia delle sue implicazioni ulteriori.
Il vuoto addominale: perché e come funziona. Formulazione ‘grezza’
L’interesse per il vuoto addominale, infatti, nasce tra le altre cose dalla constatazione di un problema che negli ultimi anni ha portato a cambiare molto il modo di allenarsi, almeno negli ambienti più evoluti del fitness: molti degli esercizi classici per il rinforzo dell’addome implicano infatti un aumento eccessivo della pressione intra-addominale, il che comporta uno stress eccessivo non solo sugli organi e sul pavimento pelvico, ma anche sui muscoli stessi dell’addome. Non sono rari, infatti, i casi di diastasi addominale (la separazione dei retti) per eccesso di allenamento.
La diastasi addominale, che peraltro è molto comune a seguito di una gravidanza, è d’altro canto uno dei casi principali di applicazione del vacuum/ginnastica ipopressiva, proprio perché questa condizione rende sconsigliato pressoché qualsiasi tipo di esercizio che aumenti la pressione nell’addome.
Il vuoto addominale, come suggerisce il nome stesso, fa esattamente il contrario del classico ‘addominale’: toglie pressione invece di aggiungerne, provocando la risalita dell’ombelico verso la colonna. Per farlo, invece di attivare i muscoli retti addominali (attivi nella flessione del tronco e responsabili della classica ‘tartaruga’), dobbiamo invece coinvolgere due muscoli più profondi, ovvero il muscolo trasverso dell’addome (lo strato più interno della muscolatura addomnale) e il diaframma.
Un modo per spiegarlo è il concetto di estensione assiale, preferibilmente dopo un espiro. Se infatti al termine di una espirazione addominale (con cui l’ombelico si avvicinerà appunto alla colonna) estendiamo la colonna allontanando il torace dal bacino (nella figura un esempio tra i tanti modi di eseguirlo), il contenuto addominale verrà risucchiato verso l’alto assieme al diaframma rilassato.
Che cosa è accaduto? Abbiamo sperimentato la relazione tra le due cavità, quella addominale e quella toracica, e la colonna vertebrale.
La cavità addominale, infatti, è sigillata in basso dal pavimento pelvico (di cui il muscolo-chiave è l’elevatore dell’ano) e in alto dal diaframma toracico. Il volume della cavità addominale non varia durante la respirazione, ma varia la sua forma.
La cavità toracica, a sua volta, ha come ‘pavimento’ il diaframma toracico ed ha come ‘tetto’ il diaframma vocale. Durante la respirazione, questa cavità cambia sia di volume sia di forma.
Perché queste informazioni sono importanti? Perché svuotando i polmoni (il diaframma, contratto nell’inspiro verso l’addome, torna rilassandosi in direzione del torace: chi è abituato alla respirazione addominale, può favorire questo processo con il trasverso dell’addome), riduciamo il volume del torace e la sua pressione interna; a questo punto, estendendo la colonna a polmoni vuoti (la cavità toracica è ora sigillata anche in alto dall’epiglottide), la cavità addominale, con tutto il suo contenuto, non può che essere ‘aspirata’ verso l’alto.
In altre parole, il ‘vuoto’ addominale non è un vuoto in senso letterale, perché l’addome non riduce il proprio volume. Lo è tuttavia in senso lato, perché ‘svuota’ la pressione nell’addome, che da positiva (nell’inspiro, con il diaframma contratto e abbassato verso l’addome) diventa negativa (con il diaframma rilassato che viene ulteriormente risucchiato dall’estensione della colonna).
Nella pratica: primo esempio
La tecnica, così sviscerata, sembra molto complessa, ma il gesto è intuitivo, tant’è che a molti è capitato di farlo per gioco da bambini. Tuttavia, siccome una cosa è la leggerezza del fanciullo, e un conto è la forma mentis dell’adulto che spesso ha bisogno di comprendere prima di fare, può non essere così semplice, senza alcuna esperienza e con pochi riferimenti a movimenti esterni, giungere al vuoto addominale.
Fortunatamente, esistono molti ‘trampolini’ posturali per ottenerlo, complice il fatto che numerosi asana implicano una leggera attivazione di Uddiyana, e attraverso alcuni accorgimenti possono essere introdotti anche nel contesto di diversi esercizi in uso nel fitness.
Uno dei metodi più semplici per ottenerlo è nella posizione di partenza del mezzo ponte (Setu Bandhasana Sarvangasana), ovvero sdraiati in posizione supina con le gambe piegate. Un particolare molto importante è che in questa posizione una leggera retroversione del bacino (proprio come se ‘congelassimo’ il momento che precede il sollevamento del bacino stesso dal pavimento) appiattirà la curva lombare generando da sé una depressione nell’addome. A questo punto, complice anche la posizione delle braccia (sollevate verso l’alto, dita intrecciate e palmi verso l’alto, o allungate all’indietro), potremo, sia inspirando, sia sollevando il torace in apnea a vuoto nella famosa ‘falsa inspirazione’, ottenere un ulteriore avvallamento dell’addome.
Ma questo ci offre la possibilità di approfondire ulteriormente il funzionamento del vaccum/Uddiyana, attraverso un’altra, e fondamentale struttura coinvolta: la colonna vertebrale, di cui Uddiyana (assieme agli altri due bandha) è uno dei fattori principali di stabilità in numerosi esercizi. Chiariremo dunque un concetto che abbiamo introdotto senza definirlo, ovvero il concetto di estensione assiale della colonna.
Vuoto addominale e colonna vertebrale. Un altro esempio pratico
La colonna vertebrale umana si è evoluta sviluppando un’alternanza di curve naturali, ossia di cifosi e di lordosi, dette anche rispettivamente curva primaria e curva secondaria, in base all’ordine in cui, esse compaiono nello sviluppo.
La curva primaria è così chiamata perché è la prima a manifestarsi e nell’adulto si manifesta nella cifosi dorsale. La curva secondaria compare dapprima nella lordosi cervicale e poi in quella lombare.
I movimenti di flessione e arcuazione possono essere descritti come una neutralizzazione rispettivamente della curva secondaria e di quella primaria. Durante il movimento comunemente noto come ‘gatto’ (Marjari Asana) la colonna vertebrale si conforma alla curva secondaria durante l’inspiro (arcuazione) e alla curva primaria in espiro (flessione).
La coppia Kaminoff-Matthews ha evidenziato come i bandha possano essere analizzati in rapporto a una particolare modificazione della colonna vertebrale, ovvero l’estensione assiale, che a differenza dei due movimenti appena descritti comporta la neutralizzazzione di entrambe le curve. In altre parole estendendo e appiattendo la colonna, preferibilmente a polmoni vuoti, avremo tutti e tre i bandha contemporaneamente.
L’esempio più eclatante è Parvatasana o Adho Mukha Svanasana, il famoso ‘cane a testa in giù’. Nel momento in cui entriamo nella posizione (preferibilmente a polmoni vuoti, ma non è indispensabile, e soprattutto piegando le ginocchia se le gambe tese ci impediscono di spostare il peso verso il bacino), è inevitabile percepire la risalita e la tenuta addominale in assenza di contrazione, per pura azione ‘pneumatica’.
Che cosa fa Uddiyana Bandha: i benefici fisici
Abbiamo già accennato ai benefici fisici dell’Uddiyana/vuoto addominale, ma vale la pena di riprenderli per passare agli effetti trans-fisici della pratica.
Applicata nel fitness, l’attivazione ipopressiva dell’addome profondo permette durante gli sforzi – pensiamo ad esempio al sollevamento pesi – di evitare il pericolo di diastasi e di ernie addominali, mantenendo stabile e protetta la colonna lombare.
Nel post parto, come già accennato, si rivela un metodo molto efficace per recuperare la diastasi addominale (ma attenzione alla seconda fase, ovvero alla risalita del diaframma: se la gabbia toracica si espande può invece separare ancora di più i retti); non dobbiamo sottovalutare anche l’azione di recupero su piano perineale, visto, che, come abbiamo già accennato, l’attivazione del trasverso dell’addome implica anche l’attivazione dei muscoli perineali, evitando che la pressione si scarichi verso il basso.
Uddiyana si rivela dunque fondamentale per il riposizionamento degli organi e, non ultimo, per ritrovare il tono addominale indispensabile per il buon funzionamento di questi ultimi e per il mantenimento della postura.
I benefici di Uddiyana però non si limitano alla sola cavità addominale, ma si irradiano anche nella cavità toracica; la sua pratica infatti migliora l’afflusso di sangue al cuore (ricordiamo che c’è continuità fasciale anche tra diaframma e pericardio), cuore che assieme ai polmoni riceve massaggio e sostegno: per questo motivo, soprattutto nell’apnea a polmoni pieni, si rivela indispensabile la coordinazione con Jalandhara Bandha, il ‘blocco’ a livello della gola, che impedisce alla pressione di salire al di sopra della settima cervicale.
Proprio per questo, è frequente vedere gli yogi piegare in avanti la testa appoggiando il mento nella fossetta tra le clavicole, oppure avvicinare il mento allo sterno senza flessione alla settima cervicale (ovvero i due modi diversi di eseguire Jalandhara).
I benefici di Uddiyana (e dei bandha in generale) riguardano però anche la colonna vertebrale. Se infatti nel primo esempio di questo articolo abbiamo provocato uddiyana attraverso un espiro seguito da un’estensione spinale, a sua volta il vuoto addominale esercita una trazione sui dischi vertebrali molto efficace per la loro stabilizzazione: proprio per questo, può essere terapeutico non solo per la muscolatura e gli organi addominali, ma anche per diverse patologie del rachide.
Gli effetti di Uddiyana Bandha, un po’ più sottilmente
Dopo essersi liberati dai respiri in entrata e in uscita, cioè dall’uso dei canali sottili periferici, bisogna abbandonarsi alla sensazione del canale centrale. Questa esperienza è quella del soggetto conoscente, legato a tutti gli esseri, unità ultima.
Jayaratha, Tantralokaviveka
Non è per gli effetti cosmetici che una pratica si colloca di diritto nello hatha yoga tradizionale, anche quando promette libertà da tutte le malattie. Allora, per comprendere cosa comporti la pratica di Uddiyana Bandha nel contesto originario, dobbiamo scendere un po’ in profondità.
Ciò che qui ci interessa è la sospensione del normale modo di respirare e di circolazione del prana, in favore di un diverso tipo di respirazione e di circolazione dell’energia vitale.
Secondo una visione comune a tutta l’india tradizionale, l’esperienza della dualità che caratterizza l’esistenza ordinaria – attrazione e repulsione, sonno e veglia, contrazione e rilassamento, introversione ed estroversione – deriva dalla scissione fondamentale nella coscienza che rende possibile fare esperienza del mondo, ovvero quella tra soggetto e oggetto, tra l’io e il questo.
La vita stessa nasce e si conserva proprio grazie all’io che si sente vuoto del questo e perciò si precipita ad appropriarsene, per poi tornare ad affermarsi separandosi da ciò che percepisce come altro da sé: in altre parole, respira, sia in senso letterale che lato. Se questa è la vibrazione vitale fondamentale della vita, è tuttavia anche impossibile, per il soggetto che rimane all’interno di questo ciclo senza soluzione, conoscere la propria vera natura. Scopo dello yoga, in quanto mezzo di liberazione, è manomettere questo circolo chiuso, modificando l’ordine e l’accento degli elementi.
Nello specifico, la simbologia dello hatha yoga descrive variamente la dualità e si propone, attraverso le sue tecniche, di superarla. Abbiamo così le coppie di opposti Prana e Apana (il respiro ascendente e quello discendente, espirazione e inspirazione), ma anche Ida e Pingala (le arterie ‘lunare’ e ‘solare’, laterali, controllate dalle due narici, che rappresentano i principi passivo e attivo, la realtà conoscibile e i mezzi di conoscenza).
Come fare, quindi, per non rimanere intrappolati nel ciclo degli opposti? Bisogna trovare lo sfondo di questa dicotomia. E lo sfondo si può percepire innanzitutto attraverso i momenti di soglia, ossia, nel nostro caso, rendendo cosciente e coltivando una terza fase che non è normalmente contemplata, ovvero l’intervallo tra le due fasi, il punto di svolta tra espiro ed inspiro, e tra inspiro ed espiro, il momento privilegiato che il soggetto conoscente può cogliere per prendere consapevolezza del tessuto connettivo tra l’io e il questo.
Sebbene quindi la pratica dello Yoga scopra dapprima il respiro, anche attraverso il movimento, e assecondi l’inspiro e l’espiro, il vero obiettivo è l’emersione di ciò che accade tra le due fasi. Si potrebbe anzi dire che la ritenzione, e anche il gesto “a vuoto”, sia la cifra fondamentale della pratica dello yoga.
Uddiyana e tutti gli altri bandha si inseriscono quindi in quest’orizzonte, a sostegno fisico della terza fase del respiro, ‘congelando’ la muscolatura respiratoria e permettendo ai soffi, altrimenti divergenti, di sintetizzarsi. Si supera così la dualità periferica di Ida e Pingala, di Prana e Apana, legate alla consequenzialità spazio-temporale, e si imbocca il canale centrale, ovvero la Sushumna, che è definita come colei che divora il tempo. E qui ogni definizione perde il terreno sotto i piedi, dove non troviamo migliori parole di quelle del Principe Myskin nell’Idiota di Dostoevskij: “Verrà tempo, in cui non esisterà più il tempo“.
Certo, qui parliamo di tecniche ma la faccenda richiede in primo luogo comprensione profonda, incarnata. Di cosa? Che non è un’esperienza a spezzare il cerchio chiuso delle esperienze e dell’io che esperisce, non è un’azione ma più spesso cogliere che esiste uno spazio tra due azioni, tra due esperienze a divenire cosciente. Tutto ciò, a un livello più fine, non ha alcun bisogno di gesti esterni: Uddiyana e gli altri Bandha possono divenire alla fine delle mudra interiori, o attivarsi spontaneamente.
Alcune conclusioni
Tornando a noi, e in contesti più familiari, verrebbe da domandarsi se, per chi ha avuto esperienza di yoga, l’aver afferrato il senso di compiere un gesto “a vuoto” (anche a livello intuitivo e per via empirica), renda diversa non solo l’esperienza del vuoto addominale di Uddiyana Bandha, ma anche quella del comune esercizio fisico.
La nostra personale risposta è sì: l’aver praticato yoga rimodula tutte le esperienze corporea, comprese quelle che sulla carta si troverebbero agli antipodi. A maggior ragione quando si compie un gesto così vicino a Uddiyana, ma anche quando occorra rendere più funzionale un esercizio compiendolo a vuoto: persino i famigerati crunch, compiuti nella consapevolezza della terza fase, possono risultare meno pericolosi di quanto sembrano improvvisamente diventati.
D’altro canto, rimane ancora la questione accennata più sopra: se è possibile prendere una postura dalle molte dello yoga e trasporla in un contesto fitness (e viceversa: come sappiamo è accaduto), essendo il modo di esecuzione che definisce i due ambiti, con Uddiyana è impossibile tecnicamente ‘non portarsi dietro’ qualcosa dello yoga, perché la tecnica stessa richiede l’interiorizzazione di una modalità yogica.
Sia ben chiaro, qui non è in discussione il principio di proprietà o di appropriazione, sebbene sia tendenza umana da tempo immemore mettere la firma su beni comuni, magari con la scusa del ‘metodo’, erigendo interi ‘sistemi’ su frammenti non del tutto assimilati e contestualizzati.
Tuttavia guardiamo un po’ con sospetto la presunzione di poter prendere ciò che ci serve, lasciando sullo scaffale ciò che riteniamo non ci interessi. Nel bene e nel male, beninteso: a volte ci troviamo con molto di più di quanto ci aspettassimo, altre con qualche grattacapo per gestire il quale non disponiamo di strumenti adeguati.
Questo per dire che pensare di eseguirlo “solo come esercizio fisico” non ha molto senso da un punto di vista yogico, soprattutto quando nel contesto originario si valuta tutto lo spettro di implicazioni, comprese quelle psichiche, mentre in quello di arrivo si pretende, non si capisce secondo quali basi, di avere la facoltà di stabilire in quale esatto punto quelle implicazioni si debbano fermare.
Un ultima questione sul tavolo è la gradualità, o meglio ancora il rapporto tra espressione fisica e applicazione di un principio. Per dirla brevemente: abbiamo notato come il vuoto addominale addominale sia sempre rappresentato nella sua forma più compiuta, al massimo grado di aspirazione dell’addome.
Possiamo immaginare, invece, che per acquisire e padroneggiare un principio, sia forse più funzionale imparare a dosare invece che spingere all’estremo? Anche nel mondo ‘laico’ del fitness, l’idea che il più sia sempre più sta diventando un po’ obsoleta.
Note
↑1 | Svatmarama, Hathapradipika, III, 57 |
---|---|
↑2 | Thomas Myers, Anatomy Trains: Myofascial Meridians for Manual Therapists and Movement Professionals |
↑3 | A. Matthews, L. Kaminoff, Yoga Anatomy |
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Giuse Albani dice
Sempre con grande piacere leggo i vostri articoli di approfondimenti e di competenza. Mi arricchite ad ogni lettura grazie