Vorrei che, alla fine della lettura di questo articolo, il suo titolo non suonasse più come un rimprovero, a differenza di quanto possa sembrare. Non intendo insomma somministrare la solita predica su quanto ognuno respiri male, perché proprio questi rimproveri sono responsabili di ancora più debiti di ossigeno di quanti ne intendano saldare.
A causa anche di questo, molte persone si presentano a un corso di yoga con il capo già cosparso di cenere e confessano con un certo senso di colpa di non saper respirare. Il respiro, al solo nominarlo, evoca spesso una competenza elementare che non si è acquisita abbastanza a suo tempo e che ci si vergogna di non padroneggiare, proprio come una regola grammaticale o le divisioni in colonna.
Oppure, il respiro suscita il fantasma di un impedimento oggettivo: io vorrei respirare, ma c’è qualcosa – un sigillo, una inadeguatezza fisiologica, una paura – che me lo impedisce.
La buona notizia è che, escludendo le vere e proprie condizioni patologiche, gran parte delle sommarie autodiagnosi da “diaframma bloccato” o da incapacità respiratoria non derivano affatto da un impedimento oggettivo o da scarsa padronanza tecnica, bensì da una soggettiva tendenza a mettersi i bastoni tra le ruote da soli. In altre parole, non ci manca niente per poter respirare, semmai c’è del troppo.
Perché non è possibile non saper respirare, per il semplice fatto che è il corpo a farlo per noi. E se respiriamo male (non troppo male da mettere a repentaglio la nostra vita ma abbastanza da comprometterne la qualità) è perché a quell’abile non sapere del corpo si è sovrapposto qualcosa di estraneo.
L’insegnante di yoga – o chiunque abbia a che fare con il respiro, il proprio o l’altrui – non può evitare di partire da questo dato: non ha senso mettere in pratica uno sforzo attivo, quando non si è ancora attivata l’attenzione al respiro fisiologico.
In caso contrario, nuovi condizionamenti andranno a sovrapporsi a quelli vecchi: il risultato sarebbe un corpo e un respiro doppiamente condizionati, ed è questa la situazione che è possibile osservare in molti praticanti di yoga, anche tra coloro che possono vantare numerosi anni di pratica: i muscoli addominali e il diaframma lavorano molto intensamente, la gabbia toracica si espande e contrae al massimo delle sue capacità, ma la quantità di respiro è appena una goccia che cade da un rubinetto aperto con grande fatica.
Respirare “come si respira nello Yoga” (come ci hanno detto di respirare) oppure come si respira nel Pilates, o con le maschere antigas, non fa molta differenza. Finché il respiro rimane qualcosa da fare, e non una presenza costante da interrogare e con cui interagire, finché non lo si ascolta visceralmente e al tempo stesso come fosse il respiro di un’altra persona, non si respira, e non si fa.
Modificare il respiro in queste condizioni è come pretendere di guidare un’auto bendati, ritenendo che sia sufficiente aver studiato la mappa stradale e che dare un’occhiata alla plancia di controllo sia superfluo. Peggio ancora, quando crediamo alla mappa per semplice autorità, perché qualcuno ce l’ha raccontata.
Spesso si sente dire nello yoga che il problema è che non siamo consapevoli del nostro respiro. Questo è verissimo, se per respiro consapevole intendiamo non un atto di controllo del respiro, bensì la consapevolezza del respiro fisiologico. Saper discernere il respiro dalla respir-azione (mi si perdoni il gioco di parole) è il primo passo perché anche la tecnica possa essere un esercizio fruttuoso di dialogo – non di coercizione – con il respiro. Per questo il sapere come respirare deve sempre radicarsi nella consapevolezza che non si sa respirare.
Respiro consapevole e controllo della respirazione
Un esempio della doppia faccia delle tecniche di controllo del respiro, di come possano essere abilitatrici oppure condizionanti, è il celeberrimo ujjaiy che caratterizza la pratica dello yoga.
L’ujjayi è una tecnica di respiro tipica dello yoga. La forma più comune in uso oggi consiste in una leggera restrizione dell’epiglottide, che produce un leggero suono sibilante, simile a un bisbiglio – che deve essere omogeneo e continuo – tra la gola e la cavità nasale e viene applicata sia come parte di altri pranayama, sia nella pratica degli asana, sia in alcune tecniche di meditazione.
L’ujjayi permette di estendere le fasi di inspiro e di espiro proprio perché regola il passaggio dell’aria, aumentando la pressione intrapolmonare e regolando di riflesso numerose funzioni. Può essere utilizzato sia per produrre intensità, sia per produrre rilassamento e concentrazione regolarizzando le fasi del respiro.
Il problema è quando l’ujjayi viene imposto senza aver dedicato del tempo all’ascolto di quel respiro. Siccome poi la regione della gola è sede di numerose tensioni, l’ujjayi diventa molto spesso un amplificatore di tensione. Il suo suono dovrebbe essere sottile come una lama che taglia la continuità dei pensieri, ma il più delle volte diventa rumore che cerca di coprire altro rumore. Rumore che si emette per non sentire, per non ascoltare, oltre che per non respirare. Sia quando si esegue una asana impegnativo, sia quando ci si siede a meditare.
Ogni controllo ha una fine
Lo Hathapradipika (1, 15) cita tra le cause che distruggono lo Yoga anche l’aderire alle regole. Questo è un aspetto che troppo spesso dimentichiamo e il respiro ne è un ottimo esempio. Tutte le tecniche di pranayama hanno come scopo non tanto il respiro, quanto la sua sospensione.
A sua volta, la sospensione del respiro volontaria, in ritenzione interna o esterna, è solo una preparazione alla vera sospensione che avviene spontaneamente. Non la si può controllare: può accadere – ma non è detto – al termine di una tecnica, ma anche in un attimo di stupore.
Tuttavia, anche senza addentrarci in percorsi fin troppo avanzati (eppure non così inaccessibili), rimane un fatto che dovrebbe essere chiarito fin da subito al principiante come al praticante esperto: il respiro non si controlla, se non per brevi tratti e in modo relativo. Pensare di controllare il respiro è assurdo quanto credere di controllare le maree navigando. Perché in fondo è di questo che si tratta: cavalcare il respiro, non possederlo.
A quanto detto è necessario inoltre aggiungere un corollario: in ogni tecnica di respiro, anche la più innocente e semplice, bisogna educarsi anche alla fase di abbandono. Abbandonare la tecnica è anzi importante almeno quanto saperla eseguire, altrimenti la tecnica diventa inconscia, il meccanismo si stabilisce sopra il meccanismo. Quando applico l’ujjayi, o qualsiasi altra tecnica, respiro in ujjayi. Ma quando cesso di applicarlo, devo abbandonarlo completamente e lasciare che il respiro naturale riprenda il suo corso.
Altrimenti, non si può evitare lo sgomento che coglie il meditante quando gli viene tolto l’ultimo sostegno, nella meditazione, del controllo del respiro: non sa più cosa fare, e si arrabatta tra respiri smorzati e tensioni.
Chi o cosa respira? Da dove origina il soffio? Le risposte tecniche e fisiologiche, a un certo punto, vanno accantonate. Bisogna, in altre parole, accettare che non sappiamo come respirare, e va benissimo così.
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Gaetano dice
Ciao Francesco, sono d’accordo con tutto. Il respiro esiste perchè un sistema neurologico neurovegetativo insieme ad altri sotto sistemi lo attiva in modo autonomo e intelligente, credo che stia nel termine intelligente il tutto, ciò che è già di suo intelligente lo si può con una sana consapevolezza, non imposta ma acquisita, migliorare percependolo. Se parliamo di sistema intelligente credo che il corpo umano sia la massima espressione di intelligenza spesso inespressa.
Grazie della rifelssione 🙂
cristina dice
Grazie che scrivi queste cose, sono cosi stanca di leggere sempre le stesse cose blasonate sullo yoga: amore, pace, unione, felicità. Secondo me lo yoga non è questo e sicuramente non è stato inventanto per questo, purtroppo lo si usa ormai per promuovere quello che fa più comodo. Condivido tutto quello che citi e le tue riflessioni.
Meg dice
Grazie per questo articolo (e anche per gli altri) ; mi sono ritrovata in pieno e mi è piaciuta tantissimo la similitudine con le maree; la prossima volta che praticherò mi ricorderò di questa lettura.