Daniela Bevilacqua è un’indianista che sta svolgendo una importante e per molti versi inedita ricerca etnografica presso gli ordini ascetici più anticamente legati alla pratica dello yoga. Prima di addentrarci nell’intervista vale la pena spendere alcune parole sul contesto entro cui la sua ricerca si sta svolgendo, ovvero Haṭha Yoga Project.
HYP è un progetto di ricerca quinquennale finanziato dal Consiglio europeo della ricerca e con sede alla School of Oriental and African Studies dell’Università di Londra. Il suo scopo è di documentare la storia della pratica fisica dello yoga attraverso lo studio filologico dei testi e la ricerca etnografica tra i praticanti di yoga tradizionale, per studiarne i rapporti con la pratica contemporanea.
Tra i ricercatori di haṭhayoga Project figurano studiosi quali James Mallinson e Mark Singleton, autori di due importanti testi che hanno contribuito a ridefinire in modo radicale quanto oggi sappiamo sullo yoga: il più recente, Roots of Yoga, co-curato da entrambi, ha messo a disposizione un centinaio di testi in gran parte mai tradotti prima, rivelando aspetti inediti dello yoga premoderno (come, ad esempio, lo stretto legame con il buddhismo tantrico); The Yoga Body di Singleton, invece, aveva ricostruito la nascita dello yoga moderno globalizzato portandone alla luce gli aspetti creativi rispetto alla tradizione e i complessi rapporti con la cultura fisica tra Otto e Novecento.
Il team comprende, anche Jason Birch (storico di Hatha e Raja Yoga e autore del blog The Luminescent) e S V B K V Gupta, entrambi al lavoro sulla traduzione di testi inediti. E, naturalmente, Daniela, che si occupa della ricerca ‘sul campo’ e che è stata così gentile dal voler rispondere ad alcune delle nostre domande mentre si trovava in viaggio per le sue indagini.
Al cospetto dei lavori dei membri di HYP, viene spontanea una domanda: come è possibile, a fronte della enorme popolarità dello yoga globalizzato, che in realtà gli studi sulle fonti dirette delle sue origini e nel campo etnografico siano territori così poco esplorati? Te lo chiedo perché in molte pubblicazioni e in molti corsi per insegnanti vengono tutt’ora trasmesse parecchie certezze, che in realtà si basano su debolissime evidenze. Insomma, com’è possibile che non solo non sapessimo, ma non sapessimo di non sapere?
Non dirlo a me! Quando ho iniziato questo progetto la prima cosa che ho fatto è stata una ricerca bibliografica sui lavori etnografici già presenti sul tema, e con mio enorme stupore, a parte alcuni articoli di James (James Mallinson) e di Ramdas Lamb – entrambi studiosi connessi con l’ordine Vaiṣṇava dei Rāmānandī – e alcuni riferimenti sparsi in sotto-paragrafi di monografie – non ho trovato nulla di specifico. Il mondo accademico, o meglio l’etnografia, ha lasciato completamente da parte gli yogi indiani “tradizionali”.
Ci sono diversi libri scritti da yogi moderni, o da occidentali che hanno trascorso del tempo e studiato con alcuni yogi, tuttavia, fino ad ora, un lavoro etnografico accademico incentrato esclusivamente sulla pratica dello yoga di yogi appartenenti a ordini ascetici tradizionali non è mai stato fatto. Il perché, non ne sono sicura. Forse perché si dà ancora un credito maggiore ai testi scritti nel passato piuttosto che ai racconti orali del presente. Ma in realtà anche gli studi accademici incentrati sui testi di haṭha yoga sono un’introduzione recente negli studi sanscriti.
La scarsità del lavoro etnografico forse dipende anche dal fatto che una etnografia tra i bābā (asceti) indiani potrebbe non essere congeniale a tutti. James ad esempio mi ha coinvolto nel progetto perché sapeva che “frequentavo” già il mondo ascetico indiano, conosco gli ordini, parlo hindi e in più ho la disposizione d’animo a fare fieldwork intensi in India in situazioni a volte un po’ estreme. In effetti, fare etnografia tra i sādhu significa adattarsi a varie situazioni, anche tenendo in considerazione un’etichetta dovuta al genere, e poi passare del tempo con le persone e attendere che si instauri una certa fiducia reciproca e ci sia così la possibilità di un discorso approfondito anche senza l’iniziazione. Questo è in effetti uno dei problemi dell’etnografo, dato che gli insegnamenti specifici vengono dati solo dopo essere entrati nell’ordine. Cosa che ovviamente io non faccio per un motivo etico: potrei fingere devozione e prendere tante iniziazioni quanti sono gli ordini con cui “lavoro”, ma non reputo questo il modo giusto di procedere. Perciò preferisco dare tempo al tempo e che siano i sādhu a decidere di loro spontanea volontà quanto potermi dire a dare.
Dunque non sto facendo delle scoperte sensazionali (ma se le facessi, non le scriverei e svelerei al mondo!), ma sto raccogliendo tanti tasselli che spero ci aiutino a capire l’evoluzione dell’haṭha yoga fino ad oggi e la posizione dei vari gruppi ascetici in essa.
La tua ricerca etnografica si svolge presso alcuni degli ordini ascetici più anticamente legati all’haṭha yoga. Cosa ci può dire una tradizione a trasmissione orale sul passato dello yoga, che i testi non dicono? Qual è il rapporto tra innovazione e conservazione, se ha senso una distinzione di questo genere?
Seguendo i testi e le conoscenze personali, ho rivolto la mia attenzione dapprima ai Rāmānandī, poi ai Nāgā Daśnāmi, ad alcuni Udāsīn e ai Nāth, che sono i gruppi principalmente connessi con la pratica. Cerco quanto possibile di raccogliere informazioni soprattutto dai Nāth dato che, tradizionalmente, la diffusione dell’insegnamento dell’haṭha yoga viene fatto risalire a Gorakhnāth, il quale, insieme a Matsyendranāth, è generalmente ritenuto il “fondatore” dell’ordine dei Nāth.
Cosa ci può dire la trasmissione orale sul passato dello yoga: beh, prima di tutto fa sì che ci poniamo molte domande sullo scopo dei testi, da chi erano scritti e a chi erano rivolti. In effetti, solo una piccolissima parte degli asceti a cui mi rivolgo conosce i testi perché attribuisce loro poca importanza: se qualcosa può essere letto da tutti, ovviamente non rappresenta il vero insegnamento ma solo la sua superficie, per questo non si può prescindere dal guru. Dunque l’unico insegnamento che conta è quello che proviene dalla trasmissione orale. E questo nell’haṭha yoga è ancora più evidente perché essendo una tradizione prettamente esperienziale, basata sulla pratica, la necessità di qualcuno che mostri e spieghi come fare in pratica i vari āsana, kriyā ecc. è di vitale importanza. Ma questo è sottolineato anche nei testi stessi.
Uno degli obiettivi che si propone l’Haṭha Yoga Project è quello di comprendere bene il ruolo di tali testi e la loro audience, e l’unione del lavoro etnografico e testuale sta portando dei buoni risultati.
Quindi, per riassumere, la tradizione orale, rispetto ai testi, ci dice esattamente come fare quelle pratiche che nei testi sono più o meno descritte. Inoltre non bisogna dimenticare che queste pratiche sono anche inserite in un contesto religioso, quindi ci sono tutta una serie di ulteriori conoscenze che bisogna implementare per rendere la pratica fisica spiritualmente effettiva. In più la tradizione orale ci può dare degli spunti per ricostruire contesti, o dare ad alcune parole delle spiegazioni più ampie ricostruendone l’evoluzione storica, o comprenderne il senso da prospettive diverse.
Per quanto riguarda innovazione e conservazione, la realtà indiana, sia testuale che orale, sebbene punti a conservare, presenta varie possibilità d’innovazione grazie all’importanza che si dà al guru: il guru è una fonte costante (sia nel presente che nel passato) di innovazione. Per questo tra gli asceti si trovano tante variazioni e tante “storie” diverse: ognuno trasmette l’insegnamento che arriva dal guru di una specifica tradizione, e per tradizione mi riferisco non all’ordine in generale ma anche a quella di un tempio o monastero specifico. La sādhanā (disciplina) yogica, ribadisco, è esperienziale, quindi si basa sull’esperienza di un guru che, provando e sperimentando, riesce a trovare un percorso che permette la realizzazione dello yoga. Una volta trovata la modalità, essa viene insegnata. Questo implica anche la possibilità di una continua ricerca, da parte dello yogi, da fonti diverse. Un asceta passa i primi anni della sua vita da rinunciante non solo con il proprio guru, ma vagando tra vari centri di pellegrinaggio, trascorrendo del tempo con altri asceti, a volte anche di altri ordini, e così crea il suo bagaglio personale di esperienza e conoscenza su cui baserà la propria disciplina. Da una tale dinamica si comprende l’alta possibilità d’innovazione.
Qual è l’atteggiamento che hai riscontrato nei confronti dello yoga globalizzato e qual è il loro rapporto con esso?
Da un certo punto di vista c’è una particolare noncuranza: gli āsana e il prāṇāyāma fa bene a tutti, quindi se questo tipo di yoga, che è poi quello che oggi in India Baba Ramdev insegna e pubblicizza come un ossesso, si diffonde, ben venga per l’umanità. Ovviamente ci sono anche asceti che supportano questo tipo di yoga perché puntano all’occidente, per curiosità, per modernità, ma anche per diventare famosi yoga guru e accumulare discepoli, fama e soprattutto denaro.
Tuttavia, per la maggior parte degli asceti, lo yoga globalizzato pubblicizzato è una forma di ginnastica, completamente svincolata dal significato e dall’obiettivo spirituale che lo yoga si prefigge. Per gli asceti lo yoga non è qualcosa da fare a giorni alterni o una volta a settimana, ma è una precisa disciplina individuale che prevede il seguire regole e precetti precisi e il focalizzarsi su un unico obiettivo e, così facendo, ottenere la vera conoscenza del sé, della realtà, l’unione con il Paramātmā e via dicendo.
Per questo, come mi ha detto una yogini, la via dello yoga deve essere intrapresa quando uno ha davvero l’intenzione di rispondere alle domande alla base dell’io. Allora, essendo la ricerca una necessità, tutto viene messo da parte, e l’unica attenzione è rivolta all’ottenimento di queste risposte.
Nel tuo paper “Let the sadhus talk” rilevi che, presso la maggior parte degli asceti che hai intervistato, il termine haṭha yoga è inteso come un’attitudine mentale più che un corpus di pratiche fisiche, che sono spesso considerate propedeutiche e di secondaria importanza. È possibile che questo sia il principale elemento di discontinuità da parte dello yoga globalizzato, così preoccupato dell’aspetto tecnico?
Sì, la maggior parte degli asceti intervistati ha definito lo haṭha yoga come un’intenzione precisa, uno sforzo specifico volto ad un obiettivo specifico. Il motivo è da collegare al fatto che yoga significa anche “metodo, mezzo” quindi, quando un asceta dice “haṭha yoga se hota hai” vuol dire “avviene per mezzo dell’haṭha”, e quindi haṭha yoga è quel metodo che, come dico nell’articolo, si basa su un’intenzione talmente forte che porta al compimento dell’obiettivo.
Per tale motivo, la maggior parte degli asceti associa l’haṭha yoga al tapasyā. Questa connessione tra haṭha yoga e tapasyā non è una scoperta particolare, dato che, come Mark Singleton insegna nel suo Yoga Body, negli ultimi secoli haṭha yogi era sinonimo di tapasvin, colui in grado di eseguire austerità incredibili. E in effetti anche oggi, tra gli asceti, coloro che fanno tali pratiche -come stare con il braccio alzato o rimanere in piedi, ecc.- vengono definiti haṭha yogi.
Ci sono però sādhu che, oltre a dare questa definizione di haṭha yoga, elencano anche le pratiche dell’haṭha yoga: āsana, prāṇāyāma, ṣaṭ karma (che raramente vengono definiti così, ma elencati come nauli, basti ecc.) e kriyā (usando spesso questa parola in generale per indicare mudrā e bandha).
Queste due spiegazioni non sono in antitesi perché la stessa intenzione del tapasyā è anche necessaria per rendere siddh, ossia perfette, le varie pratiche fisiche dello yoga. Il raggiungimento di una tale perfezione si ottiene tramite una rigida disciplina.
È interessante notare che coloro che hanno il pieno controllo delle pratiche fisiche, quali āsana, ṣaṭkarma, bandha ecc. sono chiamati Yogi Raj tra gli asceti.
Ovviamente tale disciplina non è solo incentrata sugli āsana, ma anche sul seguire le regole (yama e nyama) necessarie per aiutare la mente a disciplinarsi ed essere pronta per la pratica non fisica. Coloro che focalizzano e ottengono la perfezione nel dhyana/samadhi sono chiamati yogi.
Per sussumere, da parte degli asceti che intraprendono la yoga sādhanā c’è un’attenzione alla parte fisica necessaria, soprattutto inizialmente, per disciplinare il corpo e di conseguenza insegnare alla mente a focalizzarsi sull’obiettivo. In più aiuta il corpo a resistere alla pratica meditativa senza la distrazione della tensione fisica.
Ma a differenza dello yoga globalizzato, c’è la consapevolezza che una volta che gli āsana sono perfezionati, bisogna “lasciarli andare” e focalizzarsi sulla parte importante dello yoga, le varie sādhanā che portano al samādhi. Ovviamente, āsana e prāṇāyāma purificatori e altre tecniche continuano ad essere usate quando necessario, un paio di minuti al giorno, due o tre posizioni necessarie.
Nello yoga globalizzato invece non credo sia evidente questo stacco o distacco, molti si affannano sulla tecnica perché permette di vedere risultati tangibili e mostrabili, cosa che la pratica spirituale ovviamente non fa. Poi ci sono anche molti insegnanti che seguono in maniera individuale anche la pratica spirituale, ma se si parla della moltitudine di persone che fanno yoga a mo’ di sport, ossia solo āsana e respirazione, allora sì, la discontinuità è un abisso, ma semplicemente perché manca di questa consapevolezza. L’asceta fa le posizioni per lo stesso motivo di un occidentale che va a fare yoga: per avere un corpo sano. Solo che l’asceta sa che quello non è altro che una goccia nel mare, e solo una componente fisica limitata e limitante, mentre l’occidentale no, pensa, nella maggior parte dei casi, di fare qualcosa di particolare. Un asceta una volta mi ha detto: “io facevo gli āsana nelle pause di meditazione per rilassare il corpo, facevo āsana perché ero in una grotta, altrimenti una corsetta avrebbe avuto lo stesso effetto”.
Puoi parlarci della presenza di donne che praticano haṭha yoga? Si tratta di un elemento innovativo rispetto al passato?
Prima di tutto bisogna considerare che le donne che riescono a diventare ascete all’interno degli ordini tradizionali sono in realtà poche e spesso lo diventano in tarda età. Però mi è capitato di incontrare una yogini che all’età di 12 anni aveva completato il suo apprendimento degli āsana, ṣaṭkarma ecc. Lei però non descrive le sue pratiche come haṭha yoga, ma le interpreta come uno step dello yoga in generale, essendo poi praticante anche di austerità la sua idea di haṭha yoga è molto connessa al tapasyā.
Poi ho incontrato un’altra yogini che ha preso l’iniziazione da adulta-anziana, dopo aver cresciuto i figli. Lei viene chiamata Yogi dal suo ordine perché ha passato diversi anni a meditare nella jungla. Però fa anche le posture per il corpo. In questi anni ho incontrato solo loro due nel mondo ascetico come praticanti. Sicuramente ce ne sono molte di più, ma spesso rimangono nascoste.
Se consideriamo la parte “laica”, non ho avuto riscontri diversi. Ho incontrato alcune famiglie in cui si pratica e viene trasmesso lo yoga in modo tradizionale in famiglia, ma solo a chi è ritenuto degno e capace di portare a termine completamente il percorso per permettere l’ulteriore trasmissione. Anche in questo caso non è insegnato alle donne (questo almeno nel nord dell’India e secondo la mia limitata esperienza).
Quindi sì, una pratica estremamente diffusa tra le donne è un elemento innovativo rispetto al passato, almeno come possiamo immaginarlo se guardiamo alla situazione presente e per come la conosciamo dai testi. I testi ci parlano del praticante uomo, e molte tecniche si incentrano su un corpo maschile. Sicuramente c’erano yogini in passato e ancora oggi ci sono, soprattutto in correnti tantriche che non prevedono la rinuncia. Tuttavia non ci sono arrivate tradizioni “haṭha yoga” scritte da donne, sebbene non sia raro trovare miniature che rappresentano donne praticanti, soprattutto dell’ordine dei Nāth, mentre svolgono austerità.
Purtroppo la società indiana era ed è ancora ostica in molti ambienti tradizionali verso lo sviluppo individuale di una donna, sia nell’ambito laico che religioso.
Sei anche tu una praticante di yoga, come altri membri di HYP? Se sì, puoi parlarci del tuo rapporto con questa disciplina?
La prima volta che mi sono avvicinata allo yoga in maniera pratica è stato nel 2006 a Rishikesh: avevo iniziato un corso e seguivo lezioni due volte al giorno, più una sessione di meditazione serale. Tornata in Italia ho cercato degli insegnanti simili a quello di Rishikesh ma sono rimasta profondamente delusa. Ho ricominciato con lo yoga nel 2010 a Varanasi, da un fantastico insegnante che faceva solo lezioni individuali. Con lui ho ripreso a fare āsana e prāṇāyāma, ma non ho mai trovato un insegnante che fosse in grado di andare aldilà di questi.
Devo dire che, sebbene altamente utile per il corpo e per produrre uno stato di rilassatezza, trovavo a volte le lezioni di yoga moderno noiose o, quando intrise di “chiacchiere” inutili, irritanti. Perciò ho iniziato a fare yogāsana, non sapendolo, come fanno molti sādhu, ossia faccio le posizioni che mi servono quando ne ho bisogno, e se ho tempo, per prendermi un minimo cura del corpo soprattutto quando sono in India. Le cose che mi dicono gli asceti o mi mostrano, cerco di metterle in pratica all’occorrenza. Non posso dire di praticare lo yoga perché vedendo cosa è lo yoga per gli asceti, mi rendo conto che una tale parola, io che ho passato con loro del tempo, non posso usarla: non seguo né yama né nyama, e non ho la fede necessaria per renderla la mia disciplina spirituale. Dunque rimango con lo yoga in un rapporto molto amichevole: ci conosciamo, lo stretto necessario a mantenere il corpo sthir (saldo).
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Daniela dice
Davvero troppo troppo interessante!!! Good job??